La sincerità ha un fascino che è pericoloso compromettere con accorgimenti di altra natura. E allora se il presidente della Repubblica è ostile al premierato, come sostengono gli esegeti, gli interpreti, gli àuguri e gli aruspici, in definitiva i quirinalisti, perché non dirlo con chiarezza? Magari sarebbe utile. Potrebbe dare qualche consiglio. Persino migliorarla, la riforma. Al contrario, come esiste un linguaggio dei fiori esiste anche un linguaggio dei presidenti della Repubblica. E Sergio Mattarella non fa eccezione. Egli fa al modo dei democristiani, pardon, al modo di Eraclito l’oscuro: “Un fermo ‘no’ a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice”. Non dice, ma accenna, esterna senza picconate, allude a tutto utilizzando il niente, offrendo così una sponda ai soliti noti che sono già scesi in campo con un arsenale di proverbi per portare a Norimberga le riforme di Meloni, come avevano fatto con quelle di Renzi, e ancora prima con quelle di Berlusconi. Il presidente ci perdonerà – ci sono pensieri che arrivano alla testa scortati (in questo caso dai corazzieri) – ma ci chiediamo per quale motivo quando avverte il pericolo di “autoritarismi prevaricatori”, egli abbia forse in mente il premierato e non, per esempio, certi magistrati. Cui nemmeno allude.
C’è in questo momento un presidente di regione, Giovanni Toti, che si trova confinato a degli arresti domiciliari che stanno assumendo la forma di un sequestro di persona. E lo diciamo seguendo la logica delle stesse motivazioni dei giudici. I quali non scarcerano Toti proprio in quanto presidente di regione, ovvero non lo libereranno, questo ha scritto per ben due volte il gip, finché egli non si sarà dimesso dalla carica che ricopre per volontà dei cittadini che l’hanno eletto. La Liguria non è uno stato sovrano, e la parola “golpe” che pure qualcuno ha utilizzato è certamente eccessiva. Tuttavia quando il presidente della Repubblica, correttamente, ci avverte di rischi per la democrazia, chissà perché a noi viene da pensare – assai prima del premierato, ossia assai prima di una riforma votata e discussa dal Parlamento – a quell’esercizio arbitrario della malagiustizia sulla quale i magistrati (e anche il presidente del Csm, che poi sarebbe il presidente della Repubblica) non si sono interrogati abbastanza.
Della malagiustizia fa parte, tra le altre cose, l’uso coercitivo della carcerazione preventiva che è, come diceva Pannella, “il reato flagrante che lo stato commette violando i diritti più elementari nelle carceri e il diritto alla normale durata dei processi”. Sicché davvero non c’è da meravigliarsi che gli innocenti abbiano paura dei giudici, e che quando si pensi a poteri esorbitanti, arbitrari e pericolosi per la libertà venga in mente in primo luogo il potere giudiziario. Altro che le riforme costituzionali. Ma questo il presidente Mattarella non lo dice. Egli, per la verità, non parla nemmeno esplicitamente del premierato. Perché il presidente traccia dei quadri. Non parla, ma spazia. Lascia intendere, e sempre va interpretato. Come l’Oracolo di Delfi, come la Pizia del racconto di Dürrenmatt, Pannychis XI, che si esprimeva in strofe giambiche e “lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta se ne stava stizzita per l’ingenua credulità dei Greci che pendevano dalle sue labbra”. Magari per chi viene da Palermo come il presidente Mattarella, da un mondo che proclama l’inutilità della parola, ai margini di un’Italia dove dire niente in maniera incomprensibile è l’esercizio più diffuso, tutto questo può essere persino considerato un pregio. Eppure come sarebbe bello, per una volta, sentire un presidente che dice le cose in maniera limpida, che parla chiaro, che consiglia davvero.
Non ci aspettiamo che il presidente parli come Augusto Barbera, il grande giurista, il consigliere di Giorgio Napolitano oggi favorevole alle riforme costituzionali, ma che almeno si sottragga all’esercizio passivo della traduzione in prosa di parole che altrimenti restano lì, disposte per ogni servizio, pronte a ogni viaggio, mercenarie per ogni guerra, saltellanti, fugaci, imprecise, instancabili e inconsumabili. Buone, ancora una volta, come ai tempi di Berlusconi e come ai tempi di Renzi, per agitare mobilitazioni stanche che creano un’impressione di appartenenza, una solidarietà di cordata appesa a valori che dondolano come caciocavalli. Leggi ilfoglio.it