Questione di numeri. Quelli di Massimiliano Allegri sono incontestabili. L’accoppiata scudetto-Coppa Italia da noi era evento raro, per l’allenatore della Juventus è diventata una piacevole abitudine da quattro anni consecutivi in qua. L’ultima l’ha collezionata in quattro giorni la scorsa settimana, sempre con lo stadio Olimpico di Roma come sfondo. Al mercoledì il Milan è stato travolto 4-0 nella finale di Coppa Italia, sotto gli occhi di Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato: sostituiva Sergio Mattarella, assente giustificato per colpa del tandem Di Maio-Salvini. Al sabato è arrivato un soporifero 0-0 con la Roma, il punto che mancava per togliere in campionato le speranze, anche aritmetiche, al Napoli, dopo che quelle mentali erano state frantumate dalla rimonta bianconera in casa dell’Inter.
Numeri di squadra (34 scudetti, gli ultimi 7 consecutivi, più 13 Coppe Italia) che impressionano, e assai preoccupano: le egemonie sportive hanno spesso depauperato i movimenti. Numeri singoli che danno la misura della bravura di Allegri, entrato di diritto tra i grandi, almeno da noi.
Con quello del Milan sono cinque scudetti, davanti resta soltanto Giovanni Trapattoni con sette. Tra gli italiani, poi, ora è sesto (11 titoli) tra i più vincenti di sempre, in una classifica aperta dal solito Trap con 22.
Uno che, come Allegri, aveva costruito le proprie fortune sull’asse Juventus-Milano, ma versione Inter. Uno che, a differenza di Allegri, ha saputo conquistare trofei anche fuori dall’Italia. Un futuro comunque già ipotizzato da chi oggi domina in patria.
Questione di percentuali. Allegri è sempre stato chiaro: “L’allenatore incide per il 5 per cento su una squadra, lo fa quando servono fantasia e capacità di improvvisazione”. Una percentuale che andrebbe doverosamente ripensata dopo l’ultima stagione, in cui tante partite della Juventus sono state decise – in senso positivo – dalle mosse in corsa di chi stava in panchina. Prendiamo ancora quella con l’Inter, quando Paulo Dybala entra e disegna la punizione per la testa di Gonzalo Higuain per il 3-2 finale. “I cambi sono un modo per correggere i miei errori iniziali”, è il mantra allegriano.
Ma sono pure alzate d’ingegno che lo accompagnano da quando giocava. Era un classico trequartista, il 10 che risolve la partita con un’idea fuori del comune. Fuori del comune erano anche i progetti professionali visto che, lui livornese, a 21 anni decide di andare proprio a Pisa. Ma era la prima serie A, sia pure vissuta in una squadra che sarebbe retrocessa e in due partite appena, con l’esordio l’11 giugno 1989 con il Milan, incrocio decisivo più volte per Allegri. La svolta nell’estate 1991. A Pescara ci sono pochi capitali e tanta voglia di tornare in A. Il direttore sportivo Pierpaolo Marino chiede Frederic Massara, attaccante esterno, al Pavia, ma c’è già una promessa al Venezia. Allora il Pescara raddoppia: trova i soldi con una cessione e aggiunge anche quell’Allegri che Marino aveva visionato ai tempi di Livorno. In Abruzzo allena Giovanni Galeone: voleva Massara per il 4-3-3, si ritrova con un giocatore in più.
Questione di maestri. Comincia un percorso di complicità che non si è più interrotto: Galeone è quello che i giornalisti cercano sempre quando devono spremere un ultimo ricordo sull’allievo; Galeone era in tribuna all’Olimpico una settimana fa, mentre la Juventus festeggiava sul campo.
“Il mio modo di vedere il calcio è merito di Galeone”, ripete Allegri. Uno che non ha mai allenato o vinto a grandi livelli, ma uno che ha lasciato un segno sull’idea di gioco. E su Allegri. Arriva da trequartista “ma in B con quel fisico lì non vedi palla”, gli dice.
Lo trasforma in mezzala, “la più forte che io abbia mai allenato”. Allegri, come il suo maestro, vince poco sul campo. C’è subito la promozione in A con il Pescara, si ripresenta da protagonista alla seconda giornata, il 13 settembre 1992, ospite il Milan di Fabio Capello, campione d’Italia. Segna dopo neanche un minuto, su cross di Massara. Una partita di altri tempi, che i rossoneri vincono 5-4 avviando la strada verso il secondo scudetto consecutivo, mentre il Pescara retrocede. Allegri chiude con 12 gol, non avrebbe mai più segnato così tanto.
E diventa il primo giocatore che Galeone chiede quando va in una nuova squadra. Se lo porta a Perugia nel 1995 e insieme centrano la promozione in A. Lo vuole con sé a Napoli nel 1997, in un campionato che si chiude con la retrocessione in B. Infine tocca al tecnico raggiungerlo a Pescara, nel 1999, per l’ultima stagione assieme. Allegri va ancora un anno a Pistoia, dove viene coinvolto in una vicenda di scommesse, con una squalifica (annullata nel maggio 2001 dalla Commissione d’appello federale) che gli brucia ancora: “Puntavo, ma sui cavalli…”. Smette nel 2003, in C2 all’Aglianese, che ritrova la stagione successiva come allenatore.
Questione di tecnica. Allegri prende il patentino nel 7 luglio 2005 a Coverciano, tesi su “Caratteristiche dei tre centrocampisti in un centrocampo a tre”. E’ il sistema di gioco di Galeone, da cui ha ereditato pure la passione per i calciatori tecnici. Passione che viene prima di tutto anche oggi, di fronte a settori giovanili che cercano gente di fisico e corsa, poi (eventualmente) qualcuno che sappia cosa sia un pallone. La nuova carriera passa attraverso episodi a volte buffi: alla Spal, nel novembre 2004, viene esonerato per… un’ora. Dopo una sconfitta con il Padova, sta tornando a Livorno. Lo chiamano e gli dicono che è licenziato, ma il successore (Gian Cesare Discepoli) prende tempo, chiedendo di vedere la squadra dal vivo. Tempo 60 minuti, un’altra telefonata rimette Allegri al suo posto. Una confusione certificata a fine stagione dal fallimento della società.
E che le scelte da allenatore siano travagliate, lo sottolinea la successiva esperienza a Grosseto, dove il padre-padrone è Piero Camilli. Dura fino a novembre, una volta cacciato ritrova Galeone, che lavora a Udine: Allegri non può allenare in due squadre diverse nel corso di una stagione, neppure come vice. Gli inventano il ruolo di motivatore, rivestito fino a gennaio, quando anche Galeone viene esonerato.
La svolta nel giugno 2007: dopo un fulmineo accordo-addio con il Lecco, va al Sassuolo, dove conquista la promozione dalla C1 e si merita la chiamata in A dal Cagliari. Cinque sconfitte consecutive al debutto, tutti aspettano il licenziamento da parte di Massimo Cellino, uno che non ci pensa due volte a far fuori un allenatore. Ma il presidente ha visto qualcosa in Allegri, che sistema la squadra e la salva. L’esonero si materializza nel 2010, a stagione praticamente conclusa: Cellino è arrabbiato perché l’allenatore andrà al Milan.
Questione di pelle. In rossonero è trionfo immediato. L’accoppiata scudetto-Supercoppa italiana nel 2011, poi il titolo perso nel 2012 per la rimonta della Juventus dopo il gol di Sulley Muntari clamorosamente non visto dall’arbitro Paolo Tagliavento (sì, quello degli ultimi labiali rubati spacciati come complicità con Allegri…), con palla respinta da Gigi Buffon ben oltre la linea. L’anno dopo salutano grandi vecchi come Alessandro Nesta, Clarence Seedorf, Rino Gattuso e Gianluca Zambrotta, mentre Zlatan Ibrahimovic e Thiago Silva vanno al Psg per 62 milioni. Scompare una squadra che aveva reso persino Antonio Nocerino un fenomeno, ultimi fuochi dell’impero di Silvio Berlusconi. Il patron non si era mai preso con il tecnico, vuoi per questioni tattiche (la solita personale insistenza sui due attaccanti), vuoi per questioni di pelle (troppo livornese e, quindi, troppo comunista per lui). Il 12 gennaio 2014 il Sassuolo segna ancora il destino di Allegri, che perde 4-3 (quattro reti di Domenico Berardi) e si ritrova a piedi.
Questione di scelte. Nell’estate 2014 la Juventus è spiazzata da Antonio Conte. Dopo tre scudetti consecutivi il tecnico chiede acquisti per il salto di qualità in Europa: non glieli garantiscono, lui saluta. Allegri era in trattative con la Lazio, infinite secondo le abitudini di Claudio Lotito.
Arriva la chiamata dall’amministratore delegato Beppe Marotta, la firma è la conseguenza. Una scelta dirompente, per i tifosi. Andava via una bandiera bianconera come Conte e si presentava il rivale più accreditato delle ultime stagioni. Facile immaginare l’accoglienza.
Ma Allegri è persona intelligente: si introduce con delicatezza, senza rivoluzioni epocali, pur se il 3–5-2 contiano è lontano dalle sue corde. Lo si vede con Andrea Pirlo, che aveva lasciato il Milan con qualche ruggine di troppo perché ritenuto non più decisivo. Nella Juventus è diventato il nuovo leader e con Allegri resta tale, come il sistema di gioco: “Ho trovato una squadra che lavorava in un certo modo e che aveva vinto tre scudetti e due Supercoppe: non l’ho cambiata, ma sistemata dove pensavo andasse fatto”.
I successi giungono mantenendo il trio Barzagli-Bonucci-Chiellini, perché la difesa è il punto fermo di Allegri, l’unico aspetto che lo differenzia dal maestro Galeone: i quattro scudetti consecutivi sono costruiti su quella meno battuta del campionato e senza avere mai il capocannoniere alla fine. Nel corso del tempo, poi, ci sono le infinite variazioni sul tema, disperazione dei giornalisti che devono indovinare la formazione. La passata stagione intuisce il 4-2-3-1 con tutti gli attaccanti in campo, chiedendo a Mario Mandzukic e a Juan Cuadrado di sacrificarsi anche in difesa, lasciando più libertà a Dybala e a Higuain. Quest’anno ha inventato il colombiano terzino, cambiando in maniera frenetica i moduli e le formazioni: 35 diverse in 37 giornate. “Le partite si preparano ma non si prevedono – ripete –. Magari decido gli undici al venerdì pomeriggio e li stravolgo il giorno della gara per un’intuizione. Le 7.30 del mattino è l’ora in cui contraddico me stesso”.
Questione di testa. Tanta tattica ma, alla fine, quello che conta è tenere in mano lo spogliatoio. Allegri ha saputo aspettare chi aveva bisogno di crescere. Quando non faceva giocare Dybala, Alex Sandro o Douglas Costa, per la critica erano diventati acquisti sbagliati. Quando li ha buttati campo al momento giusto, si sono trasformati in fenomeni. Poi c’è il rapporto personale: “Io sono sereno perché parlo direttamente: quando uno mi prende per il culo, divento matto”. Chiedere a Leonardo Bonucci, che si ribella davanti a tutti contro il Palermo e si ritrova spettatore su uno sgabello nella partita successiva con il Porto in Champions League. Perché Allegri è uno che difende i suoi giocatori, ma non accetta tradimenti. Uno fedele agli amici. Basti vedere la combriccola (i livornesi sono in maggioranza) di cui si circonda a cena dopo ogni notturna: battute, racconti e risate.
Lui, a differenza di molti colleghi, non si prende sul serio fino in fondo. Il calcio è una passione, non un’ossessione. Si sdrammatizza. Il contrario di Maurizio Sarri, per intenderci, grande rivale di quest’anno. In comune hanno solo le origini toscane, poi sono diversi su tutto: abbigliamento, atteggiamento, idee e metodi di lavoro. Nella facile Italia degli -ismi, abbiamo inventato il “sarrismo” per definire il calcio-spettacolo del Napoli. Divertente ma non vincente perché, come dice un suo vecchio direttore sportivo, Sarri è bravissimo ad arrivare secondo. E alla fine vince l’“allegrismo”, più concreto in campo e più scanzonato fuori. A cominciare dalle tante donne, da Erika congedata nel 1992 il giorno prima delle nozze, fino a alla mediaticissima Ambra Angiolini. Storie che ti fanno finire in prima pagina, oggi come allora.
Questione di stimoli. Una cosa sola ad Allegri non va giù, essere definito aziendalista. Facile etichetta quando al Milan ti vendono Thiago Silva e Ibrahimovic o alla Juventus saluti Paul Pogba o Arturo Vidal, senza battere pubblicamente i pugni. “Se significa che devo rendere conto del mio lavoro alla società – replica –, mi va bene: sono un dipendente, mi pagano anche bene e devo portare a casa i risultati. Se significa che altri mi dettano la formazione, vuol dire che non mi conoscono”. I risultati, per l’appunto, i numeri di cui parlavamo all’inizio e che non bastano ancora per entrare nel cuore dei tifosi. Quelli bianconeri vincono tanto e fanno gli schizzinosi di fronte a un pareggio con la Spal, atteggiamento che manda in bestia Allegri, abituato a contestualizzare ogni prestazione. Allo stadio, poi, raramente senti un coro per lui.
Una freddezza che, un giorno, potrebbe divenire chiave di lettura di un addio, nonostante Allegri stia bene alla Juventus, “una società che ti spinge ai successi”. Ne manca uno solo, dopo due finali di Champions perse nel 2015 con il Barcellona e nel 2017 con il Real Madrid. Quest’anno c’è stata la beffa del Bernabeu, con la rimonta spezzata dal fallo farlocco di Medhi Benatia e dal rigore fischiato da Michael Oliver in una delle più belle partite dei bianconeri. Da qui si ricomincerà, dopo quattro anni unici perché “alla Juve, quando riparti, le motivazioni le trovi sempre”.