Alle radici dell’arroganza

Il presidente della Regione, Renato Schifani, in compagnia del commissario regionale di Forza Italia, Marcello Caruso

Nelle sue denunce circostanziate, che rischiano di mandare gambe all’aria il sindaco Lagalla, Davide Faraone offre una chiave di lettura interessante. “Quel che posso constatare è che, tranne qualche parlamentare meritorio, non è esistita l’opposizione a questo governo regionale. Troppe decisioni vengono prese all’Ars in complicità”. Le sue parole riecheggiano su Repubblica mentre il Partito Democratico tenta, disperatamente, di convincere Italia Viva a recidere il legame col sindaco e la sua amministrazione. Per cosa, poi? “Per sederci al tavolo con chi vorrà costruire insieme a noi un percorso che parta dalle idee”. Sembra un disco rotto, in realtà è l’assist di Anthony Barbagallo, segretario del Pd. Uno dei pochissimi – a voler essere obiettivi – che da Roma ha provato a fare un po’ di opposizione a Schifani, ai suoi “tecnici” e ai famelici patrioti.

Qualche giorno fa Barbagallo, già contrario all’attribuzione di poteri speciali a Schifani per la realizzazione dei termovalorizzatori, ha chiesto l’annullamento del decreto con cui l’assessore per il territorio aveva espresso a giugno parere positivo sulla Valutazione Ambientale Strategica (VAS) dell’aggiornamento del piano regionale dei rifiuti. Ma un deputato che se la canta e che se la suona da Montecitorio, senza mai mettere piede nell’aula di Sala d’Ercole, lascia il tempo che trova. E’ a Palermo, a Palazzo dei Normanni, che l’opposizione avrebbe dovuto dimostrarsi dinamica, rigorosa e, volendo, spietata. Di fronte a un governo che non sa contenere le emergenze, che non sa proporre una riforma, che si spartisce i teatri come fosse un buffet di dolci ai matrimoni, si sarebbero dovuti levare gli scudi. Invece Pd, M5s e Sud chiama Nord annaspano con iniziative isolate, che non portano a nulla: perché chiedere la presenza in aula del governatore, o lamentare la lottizzazione delle poltrone della sanità (una pratica comune a tutte le forze politiche) è risultato tempo perso.

Schifani non teme i gruppi di minoranza, e ha persino trovato il modo di ammansirli: ad esempio con la pratica delle mance. Non c’è Finanziaria, o manovra correttiva, che non preveda ricche prebende anche per i deputati che presidiano l’altro lato della barricata. Non c’è leggina, come quella sugli enti locali, che non giochi sui sottilissimi equilibri territoriali, sulle comodità che possono far comodo a destra così come a sinistra. Basti pensare che è stato il Movimento 5 Stelle a proporre l’aggiunta di un assessore in giunta (seppure a invarianza di spesa) per rimediare uno strapuntino in più nelle giunte “amiche”, come a Gela. Partire da questo presupposto, utilizzando la minaccia del voto segreto per decidere le sorti di ogni singolo emendamento, apre una prospettiva solida: quella dell’inciucio. Da cui Schifani trae nutrimento.

Faraone lo ha accusato di “bullismo” per avergli scatenato contro i deputati (non ancora murati) di Forza Italia. Ma è l’opposizione ad aver dato questa forza al governatore. Di fatto, scansandosi. L’episodio più inquietante è avvenuto in prima commissione, all’Ars, dove i deputati erano tenuti ad esprimersi sulla documentazione integrativa riguardante ogni singolo direttore generale (già nominato dal governo). Ebbene, ha vinto la logica del silenzio assenso. Dopo aver richiesto agli uffici un “supplemento d’indagine” sui 18 prescelti – c’è chi aveva un processo in corso, chi non aveva le carte in regola, che aveva combinato sfracelli nella sua vita precedente – tutti hanno marcato visita. Non s’è tolta una sola voce per contestare la nomina di Tizio o Caio, da Palermo e Catania. E così le nomine, anche le più tragiche, sono passate in cavalleria.

La storia dell’opposizione in questa legislatura è racchiusa in pochi esempi. Le sessioni finanziarie valgono per tutti. Anche i deputati di minoranza devono portare (ogni tanto) il pane a casa: così ecco le somme per i carnevali, per gli organi delle chiese, per il rifacimento dei campi sportivi, per le sagre di paese. Il tesoretto a disposizione (80 milioni circa nell’ultima manovrina) è stato suddiviso in maniera scientifica, per consentire a ognuno dei 30 parlamentari di minoranza di farsi bello coi sindaci e coi cittadini. Di mantenere quote di consenso sul territorio. A segnare le uniche sconfitte del centrodestra sono i suoi stessi franchi tiratori: una presenza debordante in occasione del primo voto sulle province o nel caso della salva-ineleggibile. Mentre l’unica vetrina che le opposizioni sono riuscite a guadagnarsi, in tandem con Schifani e tutti gli altri, è l’approvazione della legge anti crack (i soldi, però, ce li ha messi il governo).

La predisposizione all’inciucio è diventata evidente al culmine della campagna elettorale del 2022, quando Pd e Movimento 5 Stelle decisero di dividersi – dopo aver celebrato le primarie – consegnando al centrodestra una vittoria scontata. Da quel momento i partiti non si sono più ripresi. Il Pd, dopo aver perso le elezioni, ha perso anche colei che li avevi condotti alla sconfitta: Caterina Chinnici (approdata, guarda caso, proprio nel partito del presidente della Regione); i Cinque Stelle, sballottati da Conte verso l’ignoto, hanno perso incisività (al netto di qualcuno che continua a tenere gli occhi aperti sulla gestione del denaro pubblico all’assessorato al Turismo). De Luca, partito come un treno, ha smarrito parte del suo contingente (4 deputati su 8 l’hanno mollato per accasarsi altrove), è stato assorbito da imprese elettorali impossibili (come la candidatura al Senato nel collegio di Monza e la partecipazione alle Europee) e dall’attività di sindaco di Taormina.

Non hanno più fatto opposizione – se non in maniera sporadica e occasionale – ma pretendono di presentarsi al loro elettorato come l’alternativa. Magari tutti insieme, in una sorta di macedonia. Potranno raccogliere il voto dei delusi di Schifani, sempre che non prevalga la logica del clientelismo di massa (vera cifra distintiva di questo governo). Altrimenti dovranno rassegnarsi alla tribuna per molto tempo, scendendo in campo solo per spartirsi i piccioli. L’unica, vera opposizione Schifani ce l’avrebbe dentro casa, ma i forzisti ribelli rimangono murati. Il presidente della Regione, che già gode della protezione di Tajani, li amministra senza fatica. Ritrovarsi alleati anche a sinistra, però, non era neppure nelle sue aspettative più rosee.

Alberto Paternò :

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