Vuoi mettere il rosseggiare dell’orizzonte di fronte a quello del sipario che si alza? Vuoi paragonare uno stucco dorato esaltato dalla luce elettrica con una colonna dorica illanguidita da quella naturale del giorno che muore? Vuoi forse dire che sono la stessa cosa l’«arlecchino» lì in alto sul proscenio bordato di velluto vermiglio con un frontone dardeggiato dai primi raggi del sole che suggellano il passaggio al dì che rinasce? Se proprio non la trovate, la differenza, inutile che rinunciate a qualche ora di sonno per ascoltare versi antichi o moderni all’alba lontani da casa mentre il cielo sembra indeciso tra il darsi la cipria o l’ombretto, vano il sacrificare qualche tuffo supplementare tra le onde sul far della sera per applaudire evocazioni di miti ed eroi mentre il sole si squaglia come un ghiacciolo dietro un monte o un remoto ma ben visibile nastro d’autostrada.
Albe e tramonti, la moda nacque una ventina d’anni fa, al di là delle canoniche rappresentazioni tardo meriggio o prima sera nei teatri di pietra all’aperto. Euripidi e Plauti venivano consegnati a una fruizione tradizionale, di vasto consumo se non addirittura “gastronomica” come si scriveva un tempo per gli allestimenti estivi dei classici. Si scoprivano invece, con i ritagli lasciati dalla notte o dal giorno, inediti per lo spettatore, forme di attenzione altrettanto inedite o comunque poco praticate, dai recital di poesia ai quartetti d’archi e qualche rivisitazione di titoli impegnativi risolta in versione Bignami, un paio d’attori e un trio di musicanti al massimo.
È stato un boom, è stata una seguitissima moda, ammettiamolo, che all’inizio incuriosiva per la novità (che potrà dirmi di nuovo Alda Merini alle cinque e venticinque del mattino, che emozioni ancora non provate mi darà quell’accattivante rondò finale alle otto meno venti dell’afosa sera?) ma anche per il dato esperienziale come direbbero gli psicoantropologi, quel mettersi in marcia collettivo, ad ore inusitate, per coltivare insieme un interesse, una passione, un amore letterario, teatrale, musicale. Un po’ da affiliati, all’inizio, un passaparola da circolo esclusivo, una carboneria culturale, una complicità da innocua setta clandestina. Poi sono stati bus navetta e addirittura torpedoni, ci si sono riempite cavee su cavee, gradini di pietra su monti e colline, anfiteatri affacciati sugli strapiombi, affollati da felici nottambuli o incurabili insonni o da anime aspiranti alla pacificazione, quasi all’estasi, nell’ora che volge al desio.
Adesso perfino le visite guidate ai monumenti dell’antichità sono organizzate – all’alba o al tramonto – da performance divulgative, cori e musiche e danze a mo’ di tragedia classica, ma nulla a confronto con quell’incanto, quel rapimento, quella temporanea esaltazione di sensi e conoscenza di una rappresentazione tout court. L’incanto, il rapimento, l’esaltazione sfumavano poi spesso in forma prosaica tra i fumi di una grigliata di carne e nel bacchico trasalimento di un bicchiere di rosso al punto ristoro vicino al teatro ma tant’è, l’anima era già appagata.
Si racconta di un’attrice – assai brava e bella peraltro – che fece le spese di questa ispirazione a volte un po’ folle: finito di recitare la sera il testo classico di cui era protagonista in un teatro greco, andò a cena coi colleghi facendo appositamente molto tardi perché aveva detto sì per l’indomani ad un’alba che avrebbe dovuto colorare coi versi di un noto poeta dell’Ellade moderna in un teatro d’epoca romana poco distante. Per quegli spicci di notte che restavano, decise di non dormire. Alle cinque del mattino, i versi del poeta greco travolsero il pubblico e fu trionfo. Lei, ancora posseduta dal “duende”, si fece accompagnare giù verso il mare e aspettò da sola che il sole la baciasse tra le spume rigeneratrici, nuotando e immergendosi in preda a un’emozione ancora forte. Uscita dall’acqua, stramazzò sulla sabbia, esausta. La ritrovarono in tarda mattina, ancora addormentata, come avrebbe detto Fantozzi, color rosso pompeiano.