La claque grillina in chiesa come se fosse uno stadio di quelli in cui oggi si giocava nonostante il lutto nazionale. I fischi all’opposizione rilanciati dal portavoce di Palazzo Chigi che, nel mezzo delle esequie, starnazza vittoria su whatsapp. Il ministro degli Interni Salvini che ignorando di partecipare a una cerimonia straziante bacia le fan e si concede ai selfie. Scene di un disastro dopo il disastro.
Genova non è solo il simbolo di un crollo materiale, apocalittico e sanguinoso, ma anche di un cedimento strutturale, non meno drammatico e gravido di conseguenze, della democrazia. In questo Paese di santi, navigatori, ladroni e amnistiati c’era sino all’altro ieri almeno una decenza istituzionale: quella che imponeva un costume da indossare nei momenti estremi. Oggi che la diga del buonsenso è crollata, non c’è più argine al dilagare della volgarità del populismo, cioè di quel veleno che uccide il rapporto causa-effetto, che innesca il black-out del lume della ragione. Ce ne renderemo conto prima o poi, quando gli effetti di questa cretinocrazia ammorbante ci faranno rimpiangere persino i vecchi lestofanti che rubavano, ma almeno sapevano dove mettere mano. Sarà triste e sarà come trovarsi di fronte al nostro personale ritratto di Dorian Gray. Speriamo solo di sopravvivere.