E’ stato un gesto da gran signore di Raffaele Stancanelli a togliere d’impaccio Fratelli d’Italia, che da sei mesi lo tiene sulle spine, senza garantirgli una seconda possibilità di candidarsi al Parlamento europeo. D’impaccio, non d’imbarazzo. Probabilmente il partito della Meloni arriverà a premiare Giuseppe Milazzo, transfugo di Forza Italia, eletto a Bruxelles coi voti di Berlusconi, e già plenipotenziario al Comune di Palermo; o magari qualcun altro che c’entra poco con la fiamma, certamente meno dell’ex sindaco di Catania, il cui nome era stato perorato per Palazzo d’Orleans dall’intera coalizione – meno che da La Russa – dopo la rinuncia obbligata a Musumeci. Stancanelli paga il deteriorarsi dei rapporti col presidente del Senato, diventato il suo nemico più acerrimo per non aver accolto di buon grado, osteggiandola apertamente, la federazione con Diventerà Bellissima. Il non aver speso una parola a favore dell’ultimo governo targato Musumeci-Armao, capace di approvare una sola riforma in cinque anni (l’Urbanistica, oggi sotto revisione), e aver provocato l’agonia dei conti pubblici (la Corte dei Conti ancora contesta la formula con cui è stato spalmato il disavanzo).
Paga, Stancanelli, l’eccesiva onestà nella critica; o magari la propria storia ingombrante, di uomo coi voti, che a Fratelli d’Italia non servono. Il partito veleggia grazie a Giorgia e la sua classe dirigente può permettersi di annaspare: ne è prova la componente catanese, oggi finita al guinzaglio dell’ex assessore regionale al Turismo, Manlio Messina, e incapace di esprimere un candidato spendibile dopo i guai giudiziari di Pogliese. Ci sarebbe il rampante Gaetano Galvagno, imbrigliato nei panni scomodi di presidente dell’Ars, che determina prestigio ma anche un’obbligata compostezza. E ci spererebbe, forse Ruggero Razza, uscito malconcio dall’esperienza alla Sanità (e con un processo pendente), già rappresentato ampiamente nella giunta Schifani grazie alla moglie, responsabile del Territorio e Ambiente. Non sarà facile trovare qualcuno in grado di trainare il partito a Catania – tranne la solita Giorgia – ma Stancanelli ha preferito tirarsi fuori da un gioco al massacro che non avrebbe giovato alla sua storia, al suo garbo e alle sue doti diplomatiche.
“Ho piacere di tornare in Europa – ha detto ieri durante il congresso provinciale di FdI a Catania, mettendoci la faccia – di esserci anche nella prossima legislatura. Ma circa sei mesi fa ho chiesto al partito se fosse utile la mia presenza in Europa, ma non ho avuto alcuna risposta, solo silenzio assordante, dubbi e perplessità. Ho la mia storia, cosa dovrei fare? Sono arrivato a una conclusione: gli imbarazzi li tolgo io avendo la coscienza a posto. E lo dico con una certa emozione: rinuncio a chiedere una ricandidatura che non è apprezzata”. L’uscita di scena di Stancanelli è il preludio a sei mesi di passione che condurranno dritti alle Europee di giugno. Che non condizioneranno per nulla gli equilibri comunitari – sia per le funzioni del parlamento che per la rappresentanza siciliana a Bruxelles (otto deputati) – ma saranno determinanti per le carriere dei protagonisti e per gli equilibri all’interno delle coalizioni, specie quella di centrodestra, e dei partiti.
Dentro FdI regge la cordata Balilla, passato da una presenza minoritaria a una preminenza significativa (Galvagno ha scelto di andarci a nozze, ma non Stancanelli che l’ha sempre guardato con sospetto). Gli sono bastate SeeSicily, gli sprechi immondi, le volgarità gratuite, le amicizie pesanti a scalare Fratelli d’Italia in Sicilia, a imporre la propria forza. Tutti devono andarci d’accordo, perché lui è il filo con il potere. Con Lollobrigida, Ministro per le Politiche agricole e sergente della corrente turistica (ma anche gaffeur a tempo perso); ma anche con Meloni, che l’ha fatto accomodare nel suo cerchio magico. Fino a consacrarlo nel ruolo di vicecapogruppo alla Camera.
Ma c’è anche Forza Italia, dove il meeting di Taormina, la forza prorompente di Marco Falcone e quella più silenziosa di Caterina Chinnici, sono riusciti a ridurre Schifani ai margini. Non più in grado di dettare una linea politica. Falcone è stato abile a organizzare il contesto: una kermesse sotto l’Etna, coi principali esponenti nazionali del partito (fra cui Gasparri) e il leader indiscusso del dopo-Berlusconi (Tajani); la Chinnici, invisibile e silenziosa, ci ha messo la ciliegina, arrivando in auto con il Ministro degli Esteri, per scacciare gli ultimi dubbi sull’eventuale presenza di Totò Cuffaro e dei suoi uomini nel listone per le Europee. O io, figlia del giudice Rocco, paladina dell’antimafia, magistrata integerrima; o Totò, condannato per favoreggiamento alla mafia, custode di una tradizione politica figlia del passato. Lei ha fatto campagna elettorale per le primarie senza spendere una parola sulle sciagure di Musumeci & Co. (e infatti è arrivata terza). Ma nel voto d’opinione, legato ai valori e alla storia (personale), il suo cognome è ancora troppo ghiotto per un partito che prova a rifarsi la verginità (Chinnici sa di Marcello Dell’Utri, anche se ormai ai margini?).
Tra l’altro Forza Italia, come FdI con Stancanelli, ha mostrato che è molto più semplice pescare fuori, aggrapparsi alla Chinnici o ai Cancelleri di turno, che niente hanno a che fare con la cavalcata di Berlusconi; piuttosto che provare a dare credito a chi, come Micciché, è stato costruttore e artefice dei risultati conseguiti negli ultimi trent’anni, compreso il 61-0 nei collegi uninominali alle Politiche del 2001. E’ bastata una lite con Schifani, un’incompatibilità manifesta, una lite sulla poltrona della sanità, a cancellare anni di successi. Adesso Miccichè è ai margini. Comanda Marcello Caruso, uno che fino a qualche mese fa gestiva Italia Viva a Palermo, che non ha mai sfiorato un’elezione, e che però s’è meritato i galloni per aver fatto da capo di gabinetto e ventriloquo al governatore. L’unico successo conseguito in questi primi mesi da commissario di Forza Italia è la nomina di Pietro Alongi al Comune di Palermo: ratificata ieri. Ora dovrà comporre le liste con Schifani, con dentro tutti i big del consenso (da Falcone a Tamajo), per raggiungere l’obiettivo sbandierato del 15%. Gli servirà un’impresa.