Claudio Fava è reduce da un lavoro infernale: durato 10 mesi e 49 audizioni e riassunto nelle 118 pagine che fanno parte della relazione finale della commissione regionale Antimafia sul “sistema Montante”. Ma prima di rispondere alle nostre domande, è un comunicato stampa di Raffaele Lombardo a farlo balzare sulla sedia. In cui l’ex governatore, rispondendo a una dichiarazione giornalistica in cui Fava “suggeriva” a Musumeci di non farsi imporre gli assessori dal politico di Grammichele, sostiene che “l’unico merito che possiede” il deputato dei Cento Passi, non è “certo legato alle sue qualità o al suo impegno”. Bensì al “cognome che porta e che ricorda il sacrificio del padre Giuseppe, eroico giornalista che osò rivelare l’intreccio tra affari, mafia e politica e fu assassinato da vile mano mafiosa”. Fava replica duro sui Facebook, poi rincara la dose. “La chiosa finale del comunicato di Lombardo, ossia che abbia costruito la mia carriera sul fatto che 35 anni fa mi hanno ammazzato il padre, è un pensierino da mafiosetto di quartiere”.
Lombardo sostiene che non ha imposto nessuno a Musumeci… (qui Fava ci interrompe)
“Nooo, falso, ci mancherebbe altro. Ma come ho potuto pensare una cosa del genere? Come ho potuto pensare che l’assessore alla Famiglia sia stato segnalato da lui, come? Lombardo è un miserabile e i miserabili non meritano risposta”.
Il focus dell’intervista è un altro: il “sistema Montante”. Qualcuno asserisce che la relazione di martedì è la prima cosa buona combinata dalla commissione regionale Antimafia.
“Credo che la commissione Antimafia non possa essere un grazioso palcoscenico sul quale far passare qualche invitato illustre, prendere un caffè e ascoltarlo per un paio d’ore. E’ un lusso che non ci possiamo permettere. Non è un luogo di discussione astratta, ma uno strumento di indagine concreta. Tra essere spettatori e affidare ai magistrati il compito di indagare, costruire verità, acquisire certezze su fatti penalmente rilevanti, c’è un grande spazio di investigazione e indagine politica che va percorso”.
Quindi, la vostra è un’indagine approfondita sulla “questione morale” della politica.
“Noi non ci siamo mossi per capire se ci sono comportamenti penalmente rilevabili. A quello pensano i procuratori della Repubblica. Ma se, piuttosto, esistono comportamenti politicamente e istituzionalmente rilevanti, frantumazione di regole, consuetudini malate, deleghe di potere, costituzioni materiali che si impongono al di là e al di sopra di qualsiasi regola scritte. E di questo, se non se ne occupa la commissione antimafia, chi se ne occupa le nazioni unite?”.
Avete applicato questo principio anche per il “sistema Montante”?
“Un dirigente dell’assessorato alle Attività Produttive ci ha detto che riuscì a insediarsi solo dopo aver fatto un provino a casa Montante e aver firmato un impegno scritto in cui l’ex capo di Sicindustria gli chiedeva cosa fare… Non so se ci sono comportamenti penalmente rilevanti, ma se sul piano politico apprendiamo una modalità di questo tipo, che è ormai consolidata, chi dovrebbe occuparsene se non noi?”.
Cosa emerge dall’inchiesta che indaga i rapporti tra la politica e l’imprenditore ora ai domiciliari?
“Che l’amministrazione regionale è stata violentata e stuprata dal sistema Montante. Dal modo in cui taluni soggetti, che nulla hanno a che fare con la legittima funzione della pubblica amministrazione né con quella di indirizzo politico che appartiene al governo della Regione, si sono insediata nei ruoli dell’amministrazione e hanno governato per nome e per conto di loro stessi. Io lo definisco un golpe, naturalmente disarmato. Ma dal punto di vista della civiltà delle regole democratiche, è un golpe”.
Il fatto più eclatante?
“Che il senatore Lumia s’assittava nella stanza accanto e, pur senza avere il coraggio di ammetterlo (siamo stati costretti ad assumere questa evidenza da 15 testimonianze), da lì gestiva la politica. Si è giustificando dicendo che non si occupava di gestione ma di “assetti politici”. Lo stesso Montante, da privato, riceveva a casa sua i funzionari della Regione, e decideva cosa dovevano o non dovevano fare. E, intercettato in macchina con la “sua” assessora, diceva di prendersi l’assessorato alle Attività Produttive, perché con quello “si può fare la terza guerra mondiale”… Ma di cosa stiamo parlando? E’ un sistema malato che ha prodotto una violenza senza precedenti sulle regole democratiche, ma ha anche stornato risorse, contaminato processi di decisione, interferito su determine, decisioni, carriere”.
L’assessorato alle Attività Produttive è stato smontato e rimontato a piacimento.
“Quando si sedevano attorno al tavolo Cicero, a quel tempo presidente dell’Irsap, e la sua assessora, per decidere chi restava e chi no, l’assessorato veniva svuotato del suo know-how attraverso vere e proprie liste di proscrizione. Hanno fatto un danno enorme. L’idea era che si dovesse governare senza far prigionieri: dovevano esserci amici e nemici”
La stampa, invece, che atteggiamento ha assunto nei confronti dei potenti?
“Il più triste. Non c’erano giornalisti che si sono fatti comprare perché corrotti con promesse che luccicavano d’oro, ma per essere ammessi nel piccolo salotto mondano in cui Montante e i suoi prendevano le decisioni. Erano disposti a scrivere o non scrivere in cambio di un invito a pranzo a Barberini, a Roma, assieme magari a qualche prefetto, questore o ministro. I giornalisti che hanno accettato quel sistema, lo hanno fatto per un irrimediabile senso di vanità. Ma ci sono anche quelli che hanno risposto picche e continuato a fare il loro mestiere. Quelli che hanno destrutturato il falso mito di Montante e hanno cominciato a raccontare tutto, dimostrando che esiste ancora uno spazio di dignità e tenuta professionale in questo mestiere”.
A proposito di seduzione. Che ruolo ha avuto l’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano in questa storia?
“Fino al 9 febbraio 2015 quello di un ministro che mantiene rapporti istituzionali col responsabile legalità di Confindustria. Ma quando, il 9 febbraio, viene notificata a Montante l’iscrizione nel registro degli indagati, il rapporto si complica: abbiamo un ministro dell’Interno contro un indagato per reati di mafia. A quel punto, però, Alfano mantiene inalterata la sua relazione istituzionale con quel signore. Decide di accoglierlo al Viminale, di riceverlo assieme al capo della Polizia, di ascoltarne le lamentele. E’ una scelta che espone il Ministero e l’istituzione in generale. Il Ministro dell’Interno non può prendere un caffè al bar con un indagato per mafia, anche se è il suo miglior amico. Sorge un problema di autotutela. E non puoi non renderti conto che la nomina all’Agenzia dei beni confiscati, avvenuta due settimane prima, va immediatamente rivista”.
A queste osservazioni Alfano come risponde?
“In modo imbarazzante. “Aspettavamo che si risolvesse l’inchiesta, che la cosa assumesse un’altra piega”… Fatto sta che Montante è rimasto auto sospeso dall’agenzia dei beni confiscati per cinque mesi. E c’è un altro aspetto: com’è possibile che a Caltanissetta la procura lo indaghi e la Prefettura gli aumenti la scorta? Il Ministro dell’Interno, in tutto questo, dice che “sono decisioni autonome prese dai singoli dirigenti delle amministrazioni”. Una cosa totalmente irreale. Capisco che non debba mettere becco nel lavoro di una procura, ma il lavoro del comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza lo guida un prefetto e un prefetto prende ordini direttamente da un Ministro. Aumentare la scorta a un signore indagato – con un messaggio neanche tanto subliminale a chi lo sta indagando – coincide al prendersi una bella responsabilità”.
L’inchiesta della sua Commissione non rivela una volta di più, qualora ce ne fosse bisogno, il fallimento dei professionisti dell’antimafia? Gente come Crocetta e Lumia viene pescata con le mani nella marmellata.
“Secondo me non erano professionisti dell’antimafia. Si trovavano nella lista di collocamento dell’antimafia. La utilizzavano come passepartout per ottenere risorse, carriere, prebende, affidavit. L’antimafia non era la loro professione, ma la loro recita, la loro simulazione, la loro clava da abbattere su nemici e avversari, il loro sillogismo malato. Erano dilettanti dell’antimafia. Non c’era professionismo, ma il dilettantismo di chi il copione se lo scrive a casa con una penna senza inchiostro e lo recita a memoria di fronte alle telecamere”.
Come si estirpa questo cancro delle future amministrazioni regionali?
“Pretendendo che il prossimo presidente della Regione non chieda permesso a nessuno prima di mettere mano alla macchina amministrativa. E che la bonifichi da tutte le ruggini che ha accumulato nel corso delle legislature. Riuscendo a rendere la macchina e quel meccanismo affidabili e funzionali a un unico obiettivo: l’interesse della comunità e della pubblica amministrazione. Crocetta era il pupo nelle mani di un comitato di polizia affaristica”.
A Termini Imerese ci sono 96 indagati per voto di scambio. Perché i politici siciliani mettono in scena – ancora – questi comportamenti?
“Temono di non essere eletti. Credono che esistano ancora i proprietari dei pacchetti di voti, e in questo sbagliano. Si assegna una funzione salvifica a questi mafiosi di quartierino, che però non sono in condizione da soli di determinare un successo elettorale. Ormai questo fenomeno si è molto ridotto, perché la capacità di riscattare benevolenze, promesse, tradimenti, premi si è ridotto. Il punto preoccupante non è la richiesta di un voto in cambio di denaro o di disponibilità, ma la costruzione di un sodalizio – da eletti o da trombati poco importa – tra portatori di interesse illegali e mafiosi e un rappresentante della politica e delle istituzioni. C’è un pezzo della politica che è convinta di poter offrire in cambio dei voti il controllo distorsivo della macchina amministrativa, l’interferenza sui processi decisionali. Per questo si è arrivati allo scioglimento di alcuni comuni come Castelvetrano o Vittoria”.
E se fosse diventato più labile il confine tra voti di scambio e propaganda elettorale?
“C’è anche questo, ovviamente. Come è labile il confine tra la raccomandazione e il traffico di influenza. Oggi i venditori di voti si sono fatti più raffinati e più scaltri, cercano di nascondersi nelle pieghe di una norma o di una legge che concede un’interpretazione ampia e discutibile dei comportamenti. Questo rappresenta un problema”.
Adesso la commissione Antimafia si occuperà dei rapporti tra mafia e politica. Solo nelle ultime settimane sono balzate agli onori delle cronache i casi che riguardano l’onorevole Pellegrino e l’ex deputato Ruggirello.
“Non andremo a indagare sui casi specifici. Vorremmo provare a capire come stanno cambiando i rapporti fra mafia e politica. Non fermandoci al voto di scambio, ma cercando di cogliere il rapporto osmotico che pezzi della politica stanno costruendo con le organizzazioni criminali. Capire quali sono gli obiettivi, in che modo vengono utilizzati gli strumenti corruttivi. Ciò prescinde dall’accertamento di comportamenti penalmente rilevabili. Bisogna capire il grado di autonomia o di subalternità della politica rispetto a questi centri di potere”.
La Regione, qualche anno fa, ha commissionato il censimento dei suoi beni immobili ad alcuni avventurieri della politica. Uno come Ezio Bigotti è finito in carcere qualche settimana fa con l’accusa di corruzione nell’ambito delle sentenze pilotate al Consiglio di Stato. Quel censimento costò 91 milioni di euro, ma nessuno l’ha mai visto. Perché la politica e la magistratura non pretendono chiarimenti?
“Sarebbe una domanda da ribaltare all’interno della Regione. Mi prendo la briga e la responsabilità di porgerla io, in modo che una risposta in un senso o nell’altro arrivi”.
Non dovrebbe intervenire la Corte dei Conti?
“Penso di sì. Più che fare i conti con le colazioni pagate coi soldi dei gruppi parlamentari, idea che piace tanto a qualcuno ma fa risparmiare poche migliaia di euro, dovrebbe intervenire adesso che ci troviamo di fronte a una vagonata di milioni dilapidata in modo consapevole. Tocca alla Corte dei Conti dare una risposta o esprimere quanto meno una preoccupazione”.