Alla ‘Santuzza’, che da tempo non è più correlativo oggettivo e non consola, paiono ormai destinati soltanto entusiasmi di borgata. Perciò, da quando non è più glamour ma solo Kitsch o Pop (forse anche a causa di carri low cost e maestranze senza idee o in declino?), certa Palermo istruita e middlebrow è senza musa e orfana di miti leggendari. Poi, visto che in città una delle attività preferite del demi-monde e della borghesia engagé, oltre l’autoreferenzialità, è costruire mitologie civettuole da consumare velocemente e senza impegno, non si poteva stare a lungo senza un feticcio anche fosse in versione olio su tela.

Allora chi salverà Palermo dalla peste? Forse nessuno meglio di Donna Franca Florio, idealizzata nella pittura di Boldini, poteva rimpiazzare questo vuoto profano e sacro nell’immaginario. Sembra l’analogo di alcuni palermitani frou frou questo Boldini, o “torta alla panna montata”, demone della superficialità svenevole e maligna (grazie a Wilde sappiamo che ne esiste una benefica), un birignao dell’eleganza rumoroso e caotico, dedito a contingenze e pose di un secolo qualsiasi. E tutto quel che mancava a Boldini e alle donne dei suoi ritratti è probabilmente lo stesso che rende manchevole l’intellighenzia di questa città. Per il pittore ferrarese a salve, eretto a versione italica di ‘grandi’ o ‘grandissimi’, si sono scomodati nientemeno valenti ritrattisti del Settecento, insieme ai Guardi o Gainsborough o Degas (e quanti invani accostamenti per esibire le sue pezze d’appoggio e riscattarne la seducente facilità!). Fosse stato così valente, Boldini non avrebbe avuto tutto quel successo nei Salons e caffè.

Ma che cosa manca a questo povero Boldini, ingolfato da quintali di frappe e falpalà per essere un grande pittore, invece che il testimone di un mondo chic? E di quanta tecnica della Leggerezza era privo? Carenza di Sprezzatura e Grazia, e profondità formale e di ‘visione’, che invece possedeva per esempio un Proust quando inscenava lazzi e balli a casa Verdurin o Guermantes. Forse la sua smania di satin fluente, ventagli e mazzetti di fiori e collane, annientava ogni interesse per la qualità del lavoro sulla materia e per il comporre. «Ciò che rodeva Boldini», diceva Tassi, «gli agevolava lo scorrere del pennello sulla tela, gli rendeva facili i rapporti e gli incassi, intanto che dissanguava i suoi personaggi lasciando solo stoffette». L’ottusità estetica è stata quella di non saper vedere oltre una pellicola appiccicosa, ‘sognante’ e traslucida del reale. Narrazione pura o diario, tutto svanisce senza lasciare interessi.

E Donna Franca Florio, il ritratto che i palermitani hanno improvvisamente scoperto al grido di “Franca è tornata a casa”, forse rappresenta bene questo desiderio ‘correct’ di innocuo, di vuoto, un ennesimo trip mondano che tra sensibilizzazioni di massa e crowdfunding distragga la città dai tanti mali esistenti (si sentiranno forse tutti un po’ aristocratici a fissare stralunati questa pittura della Belle Époque, o rassicurati di appartenere a una città che oggi danza sul baratro, ma che un tempo contava su personaggi interessanti?). Alimentare col suo appeal il miraggio di un luogo simbolo di cosmopolitismo scintillante e la convinzione di un prestigio internazionale, per esorcizzare miseria economica e disoccupazione, è forse il solo pregio di questo ritratto: ipotesi che rende ancora più triste questo innamoramento last minute per Franca/Rosalia. O in realtà alcuni palermitani sperano che Donna Franca in cornice, come il ritratto di Dorian Gray, invecchi e imbruttisca al posto della loro città, assumendosi il peso di tutti gli orrori e raccontando la decadenza che loro non sanno vedere, e di cui nessuno vuole assumersi la responsabilità?