Palermo per chi sta fuori è una dimensione dell’anima. Ricordi, odori, luci, speranza di tornare. Rabbia, quella che ti ha fatto scappare ma di cui ti dimentichi ogni volta che l’aereo inizia la discesa verso Punta Raisi, anzi verso il “Falcone e Borsellino” e tu hai paura perché ti ricordi Montagna Longa e tutti gli altri incidenti di quella pista brulla, ventosa, insicura (o almeno vissuta come tale). Poi la città ti acchiappa, per qualche giorno va tutto bene ma alla fine qualcosa ti manda in bestia e inizi a controllare l’orario di ritorno del volo. Scisso fra l’amore e la furia, desideroso di ridare equilibrio al tuo cuore.

Serata estiva, terrazza magnifica, due grandi temi: il nuovo percorso del tram e la pedonalizzazione. L’uditorio è sempre categoricamente spaccato fra favorevoli e contrari. “Ma serve sto tram?- domando ansiosa da capire – perché prima di sfasciare via Libertà…”. Nessuno lo sa. Tra i presenti nessuno lo prende. Lo schieramento è puramente ideologico fra chi lo ritiene una porcheria e chi pensa sia un’idea rivoluzionaria.

“Lo fanno anche all’estero, anche a Hong Kong… ce lo invidiano tutti”, ripetono i fan a intervalli fissi, scatenandomi il ricordo involontario del pouf delle ragazze nella scena del ballo del Gattopardo dove un gruppo di giovani non faceva che dire “Maria, Maria” davanti a qualsiasi cosa, simili ad uno stagno di ranocchie (definizione di Tomasi di Lampedusa).

A me questa invidia forsennata non risulta, tuttavia voglio saperne di più perché l’idea di un mezzo pubblico funzionante a Palermo non mi dispiace affatto, anzi mi incoraggia nelle mie velleità isolane. Mi vedo indipendente da auto, amici e taxi andare di qua e di là, superare gli ingorghi, smettere di arrabbiarmi con il demoniaco traffico cittadino. Libera come a Milano. Sorrido. Una voce mi riporta indietro.

“Ma quale tram, Luisa ti prendi una bella bici, stai nella zona pedonale, fai prima e ti godi la città”. Il problema è che io non so andare bene in bicicletta (eh, lo so che è grave ma non è obbligatorio) anzi la detesto e in più sono certa che in mezz’ora sarei a terra o sudata come un cavallo. Mi toccherebbe prendere un taxi e pagare anche per il trasporto delle stupide due ruote. Niente da fare. Cambiamo argomento. Se il tram è un terreno minato, parliamo della chiusura del centro.

Le signore più avvertite si buttano in avanti come un diplomatico di mestiere e con notevole sforzo deviano la conversazione: sta diventando un “chiummo”, poi finisce che qualcuno litiga. Urge parlare d’altro. “E’ un successo che ha richiamato un turismo favoloso – mi risponde invece un’ex compagna di scuola, fra le poche interessate all’argomento- nascono nuove aziende, locali, b&b. La sera c’è la movida. Ci voleva. Poi con Manifesta… Siamo la capitale mondiale della cultura”.

Almeno ha le idee chiare sia pure vestite da insopportabile retorica. Ed è noto che chiunque possa ammantarsi del titolo di “capitale mondiale” sia pure dei fagioli, lo farà senza alcuno sprezzo del ridicolo. La mia amica non fa eccezione ed è sincera.

Così, la sera dopo sono io ad andare nel paese delle meraviglie alla ricerca di un vero palermitano genuino gelato artigianale. Parto dal Massimo e mi fermo ovunque inseguendo la memoria infantile di cannella e anguria, anzi melone, gusto che nel frattempo ha perso il suo bel colore fucsia e il suo gusto, oltre alla natura quasi casalinga. Chiedo, insisto, non mangio: è tutto industriale e la brioscina non è fresca.

Cercando trovo: un’arancina al pistacchio che ha visto tempi migliori, infinita chincaglieria cinese, birra, spinte, rumore, carta in terra. La gente, però, ha l’aria di esserne felicissima. Ho torto io.

“Nooo- mi dice l’amica vittima della mia protesta- ma dove lo vai a cercare il gelato di una volta? Me lo potevi dire che chiamavo mia madre. Anzi ora lo faccio, così ce lo fa trovare lei”.

“Grazie, magari ci sentiamo domani. Salutami la mamma”.

Il volo a che ora è?