Sono tredici miliardi e mezzo i costi (stimati) per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. A 1,3 miliardi, come riferito da Giorgia Meloni e Renato Schifani durante la passerella del Teatro Massimo, ammonta il co-finanziamento della Regione. “Comunque vadano le cose – spiega la Gabanelli sul Corriere della Sera – chi ha fatto bingo è l’operatore che è tornato in pista: con l’uscita del decreto il titolo di Webuild si è impennato del 20%”. In questa fantastica commedia all’italiana senza un finale – se ne discute da cinquant’anni e siamo ancora all’esproprio dei terreni – Webuild è il costruttore, con in testa Pietro Salini. O meglio, rappresenta il 45 per cento del Consorzio Eurolink, che si occuperà della costruzione dell’opera dopo aver fatto causa allo Stato (e averla persa nei primi due gradi di giudizio) a causa dell’interruzione dell’iter durante il governo Monti.

Ma il punto è un altro: il costo del collegamento stabile fra Sicilia e Calabria, che progettualmente resta simile a quello del 2006, è più che triplicato: si è passati infatti dai 3,9 miliardi dell’epoca, ai 13,5 di adesso. Anche se la parte finanziata, come si evince dall’ultima Legge di Bilancio, risulta inferiore (11,5). Una domanda da porre a Salvini è chi pagherà il resto, giacché la Commissione Europa, anche di recente, ha fatto finta di nulla. Scorrendo nella corposa documentazione a supporto, risulta una nota dell’eurodeputato in carica, Ignazio Corrao, che denuncia la situazione: “Bruxelles conferma che il progetto è ancora in fase di studi preliminari, con un possibile cofinanziamento dell’UE che coprirebbe fino al 50% dei costi degli studi, ma non della costruzione”, spiegava un mese fa l’eurodeputato dei Verdi (ex Cinque Stelle). Un concetto ribadito nell’approfondimento di Gabanelli per il Corriere: “Bruxelles vuol vedere le carte prima di ipotizzare un aiuto economico”.

La Sicilia invece ha subito uno scippo di cui s’è discusso ampiamente. Anche se, alla cerimonia di presentazione dell’Accordo di Coesione, Schifani ha spiegato come la Regione abbia voluto “fortemente” contribuire ai costi dell’opera. In realtà – di fronte all’ipoteca da 1,3 miliardi posta da Salvini – il governatore si era risentito in maniera forte, salvo poi derubricare tutto a un “errore di comunicazione”. In pratica, sul malloppo complessivo da 6,8 miliardi – l’accordo più cospicuo firmato fra Palazzo Chigi e una regione italiana – una buona fetta è stata “requisita” per i capricci di un ministro che spera di poter inaugurare i cantieri entro il 2024, e così facendo di portare acqua al proprio mulino grazie alla campagna elettorale. Salvini non si cura dei dubbi, delle interrogazioni, delle proteste. Snobba l’Italia dei ‘no’, anche se questa – sulla base di un presupposto scientifico – dovesse essere prevalente. Continua ad aizzare la pancia, garantendo un abbattimento dei tempi di attraversamento dello Stretto e, già che ci siamo, annunciando migliaia di posti lavoro. Era partito da circa 120 mila, invece, secondo la Stretto di Messina SpA, “negli otto anni necessari a costruire l’opera, si impiegherebbero da 4.300 a 7.000 unità, a seconda degli anni”.

E’ una delle tante storie, alcune anche molto serie, che circolano sulla costruzione dell’opera. “Nelle aree di esproprio – si evidenzia sulle colonne del Corriere della Sera – alcune situazioni si sono modificate rispetto al 2011: su una c’è la variante ferroviaria, un’altra cade in una zona cimiteriale, su una terza è sorto un villaggio turistico. Ma, soprattutto, secondo lo studio geologico commissionato dal comune di Villa San Giovanni sulle mappe catalogate da Ispra nel 2015, ci sono 5 faglie attive di cui una nell’area del blocco di ancoraggio dei pilastri. Dopo il terremoto di L’Aquila su quel tipo di aree c’è l’inedificabilità assoluta”. Inoltre, “da gennaio 2023 il valore di case e terreni è crollato proprio perché hanno il vincolo di esproprio. Anche sulle aree circostanti è piombata l’incertezza: chi vuole acquistare casa non riesce a stipulare un mutuo perché la banca non può mettere l’ipoteca. Mentre le amministrazioni pubbliche, con il vincolo, si vedono bloccati tutti i progetti, inclusi quelli del Pnrr”.

Il tentativo di avvalorare un’idea – che il Ponte è bello e utile, e che i traghetti sono brutti e cattivi – rischia di mandare in frantumi la vita di molte persone, che in queste settimane hanno provato a far sentire la propria voce con manifestazioni di protesta. Specie sul fronte calabrese, dove l’opera è ritenuta dannosa e non viene dato alcun credito alle promesse di indennizzo del governo in cambio della rinuncia a terreni e aree edificate (per circa 370 ettari). “I procedimenti, compresa l’adozione dei decreti di esproprio, potranno essere avviati soltanto dopo l’approvazione del progetto da parte del CIPESS”, scrive la Stretto di Messina SpA, che Monti aveva messo in liquidazione e Salvini ha riesumato con una cinquantina di milioni. “Secondo quanto previsto dal Testo Unico sulle espropriazioni, la presenza del vincolo preordinato all’esproprio è irrilevante ai fini della stima dell’indennità, proprio al fine di proteggere i proprietari degli immobili dal rischio di speculazioni immobiliari da parte di soggetti terzi e di perdita di valore”. Ma superato uno scoglio ce n’è subito un altro: riguarda le valutazioni ambientali richieste, a vario titolo, dagli organi competenti.

Il Comitato scientifico indipendente della Stretto di Messina ha dato il via libera all’aggiornamento del progetto, purché siano rispettate 68 raccomandazioni, fra cui nuovi approfondimenti sismici, nuove analisi e previsioni con scenari che tengano conto di eventi estremi e una nuova analisi delle correnti marine e dei venti in relazione alla struttura. Ma anche il Ministero dell’Ambiente è entrato a gamba tesa sui progettisti, chiedendo 239 integrazioni, scrive DataRoom, comprese “la necessità di chiarire se l’Analisi Costi Benefici ha tenuto conto degli studi sui flussi di traffico, se la stima dei costi è stata aggiornata rispetto alle condizioni attuali o se si sono mantenuti i valori indicati nella precedente documentazione, di specificare la tipologia dei costi di manutenzione e gestione dell’opera, di presentare un quando «aggiornato e congruente» degli scenari di rischio sismico e maremoto aggiornati allo stato attuale dei luoghi”.

E c’è quest’altro aspetto, non l’unico ma forse uno dei più importanti, che dovrebbe far drizzare le antenne ai politici che promettono investimenti miliardari e lavori celeri. Ma anche al CIPESS, cioè il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile cui tocca l’approvazione definitiva dell’opera. E che, stando al report della Gabanelli, non sarebbe stato considerato abbastanza da chi ha aggiornato il progetto: si tratta dello studio dell’Università di Catania e Kiel (Germania) che nel 2021 hanno annunciato la scoperta di una faglia attiva di 34,5 km lungo lo stretto di Messina, mai mappata, che ha deformato il fondale marino e che è in grado di scatenare terremoti di magnitudo 7,1, cioè il livello massimo sopportabile dalla struttura. Anche se, per la Stretto di Messina SpA, “la presunta “nuova faglia” (sullo studio non esiste un unanime consenso della comunità scientifica) si colloca in ogni caso a 10 km dall’attraversamento e non costituirebbe un elemento di rilievo per il progetto”.

A furia di voci, smentite e conferme non si capisce dove stia la verità. Se nell’euforia ottimista di Salvini, o nell’ideologia conservatrice della sinistra. Se dalla parte dei pontisti, o di quelli che fin dal primo istante l’hanno disprezzato. Quel che è certo è che la Regione ha dovuto rinunciare a un bel malloppo di fondi comunitari per un atto di fede. Pur nella consapevolezza di correre un rischio, che ha fatto mettere le mani avanti a Schifani: “Abbiamo previsto un miliardo per i fondi relativi alle infrastrutture essenziali e strategiche al di là del Ponte – ha detto il presidente della Regione – perché dobbiamo detto sempre che il Ponte non può rimanere una cattedrale del deserto”. Questa è una promessa persino più impegnativa di fare il Ponte.