Una delibera di giunta approvata il 27 dicembre 2019, aveva disposto la chiusura delle liquidazioni delle società partecipate della Regione entro il 30 giugno 2020, con il trasferimento degli eventuali contenziosi a una struttura-veicolo. Un mese dopo la scadenza dei termini, ovviamente, nessuna liquidazione si è conclusa. Piuttosto, l’assessore all’Economia Gaetano Armao ha annunciato che l’unico ente a chiudere “a breve” sarà l’Espi, l’ente siciliano per la produzione industriale. Che non è una società partecipata, bensì uno dei tanti enti pubblici “vigilati” che gravitano nell’orbita di mamma Regione. Peccato che il processo di liquidazione, in questo caso, duri da oltre vent’anni e ha generato una serie di sprechi (per palazzo d’Orleans) e di profitti (per i commissari liquidatori) inimmaginabili. Mentre delle sette partecipate in liquidazione, fra cui la vecchia cara Spi (Sicilia Patrimonio Immobiliare) sono lì che galleggiano in attesa di conoscere il loro destino.
Un destino che la Regione dovrebbe indirizzare e non subire, dato che la vicenda delle società partecipate è legata direttamente al tentativo di razionalizzazione della spesa che il governo Musumeci, nel dicembre scorso, si è impegnato a portare avanti per ottenere la dilazione in dieci anni del mega disavanzo con lo Stato certificato dalla Corte dei Conti. Erano stati gli stessi giudici contabili a ravvisare che “molte partecipate regionali si sono mostrate geneticamente prive di sostenibilità economica”, e ricordare a Musumeci e Armao che bisogna portare a compimento “un intervento organico di riordino e di effettiva razionalizzazione delle strutture e del personale” di queste società, i cui amministratori e organi di controllo risultati inadempienti dovrebbero essere sanzionati.
Ma la galassia delle società direttamente (o indirettamente) riconducibili alla Regione è variegata. Le partecipate “dirette” sono ufficialmente quattordici. Tre di esse – la Società interporti siciliana (Sis), Sicilia Digitale e il Parco Scientifico Tecnologico – Armao ha detto di volerle accorpare, allo scopo di creare una sola società “che fa innovazione e ricerca”. Di per sé non è facile capire come la Sis, una società di scopo nata con l’obiettivo di realizzare “delle strutture interportuali in Sicilia” (a Catania e Termini Imerese) e con tredici dipendenti attivi, possa contribuire allo sviluppo tecnologico e digitale dell’Isola. La stessa Sis è stata rifinanziata con 800 mila euro nell’ultima Legge di Stabilità e ha nominato un tirocinante nel ruolo di responsabile anticorruzione. L’amministratore unico, invece, si chiama Rosario Torrisi Rigano e gode di un compenso di 35 mila euro l’anno.
Anche Sicilia Digitale, la società informatica della Regione che passò (anche) fra le mani dell’ex giudice Antonio Ingroia, ha un amministratore unico: si chiama Carmine Canonico e non percepisce compensi, ma gli incarichi dirigenziali non mancano (per 47.500 euro l’anno). I dipendenti sono 88. La cosa più drammatica è che la vecchia Sicilia e-servizi (il dominio del sito internet è rimasto identico) non becca più una commessa. Se n’è avuta conferma qualche settimana fa, durante il blocco e la polemica sulla cassa integrazione in deroga. Musumeci, avendo appreso che la piattaforma informatica era gestita da una società esterna di consulenza, spiegò che Sicilia Digitale “l’abbiamo trovata che era una scatola vuota. Purtroppo era stata concepita per favorire l’amico del giaguaro. Magari la accorperemo ad altre partecipate”. E l’accorpamento potrebbe avvenire nei prossimi mesi.
Magari con il Parco Scientifico e Tecnologico, l’unica società delle tre ad avere un Consiglio d’Amministrazione. Il presidente Giuseppe Scuderi ha un trattamento di 25 mila euro l’anno, i due consiglieri si aggirano sui 9.500. Ma questa società con sede a Catania ha appena tre dipendenti (un paio sono palermitani). Anche in questo caso è difficile capire che tipo di apporto potranno dare al mondo dell’innovazione, anche se la mission iniziale dell’azienda era “accrescere la competitività del territorio attraverso la ricerca, l’innovazione, il trasferimento tecnologico, la diffusione della cultura della qualità e della formazione continua e l’attrazione d’investimenti”. Accorpare o liquidare? Un’altra partita si gioca sull’asse del credito agevolato: dopo due anni d’attesa – tutto è cominciato con un collegato alla Finanziaria 2018 – nelle prossime settimane, dalla fusione di Ircac e Crias, dovrebbe sorgere l’Irca. Che potrebbe consentire il superamento del blocco operativo che, di recente, impedisce la concessione dei prestiti alle imprese.
La creazione di nuove società può rappresentare un bancomat per distribuire poltrone, assegnare incarichi esterni, coinvolgere studi professionali. E un domani, se dovesse servire, nominare “nuovi” commissari liquidatori. Con cui la politica va a nozze. Basti citare il caso Espi, a cui ha fatto riferimento Armao nella sua intervista a Live Sicilia. L’ente siciliano per la promozione industriale, avamposto di una Regione che negli anni ’60 ha accarezzato il sogno di diventare impresa, è tuttora vivo (anche se fantasma). Per vent’anni, fino all’avvento del governo Musumeci, il commissario liquidatore è stata la professoressa Rosalba Alessi, che in quest’arco di tempo – stima di Repubblica – ha portato a casa circa 400 milioni. A tenere attaccato l’Espi al respiratore artificiale, nell’ultimo quinquennio, è stata una sola causa di risarcimento civile, intentata da un dipendente della casa vinicola Duca di Salaparuta. Assistito, fino al 2017, dall’avvocato amministrativista Gaetano Armao. Da quando Armao è tornato alla Regione non fa più l’avvocato, ma ha cambiato sponda: infatti, ha spodestato la Alessi dall’incarico di liquidatore per far spazio ad Americo Cernigliaro (compenso zero). Ed entro il 2020 spera di chiudere la partita di una società succhiasoldi: tuttora il Collegio dei Revisori dei Conti genera “uscite” per 16 mila euro l’anno.
Di Espi si occupa l’ufficio speciale per la chiusura delle liquidazioni della Regione siciliana, che sta lavorando pure sulle Terme di Sciacca e di Acireale, sull’Eas (la società degli acquedotti) e sull’Ente minerario (Ems). Mentre fra le società partecipate che si sarebbe dovuto liquidare entro il 30 giugno, compaiono ancora la Spi (partecipata al 75% dalla Regione e al 25% da Ezio Bigotti, complice dello scandalo da 110 milioni per un censimento “fantasma”), Biosphera (servizi di sostegno alle imprese), Inforac Srl (ricerca e sviluppo sperimentale nel campo delle scienze naturale e dell’ingegneria) e, udite udite, la società Stretto di Messina, che aveva come scopo lo studio, la progettazione e la costruzione di un collegamento viario e ferroviario fra la Sicilia e il continente: il famigerato Ponte sullo Stretto. Il dottor Vincenzo Fortunato, per la pratica di liquidazione, percepisce 40 mila euro annui. Queste società rientrano nel piano di razionalizzazione della spesa che il governo Musumeci avrebbe dovuto avviare in fretta, ma che è stato rinchiuso nei cassetti.
Fra i buoni propositi della delibera citata in avvio, in riferimento alle partecipate, c’era anche la riduzione delle spese di amministrazione e gestione del 5% annuo. Ma la regola non vale sempre. Anzi, in funzione dei recenti problemi col Covid, la Seus, la società di emergenza urgenza che un ddl vorrebbe trasformare in Areu (col bollino blu della Regione Lombardia), ha ottenuto una deroga rispetto al “piano di contenimento” per i prossimi 24 mesi. Mentre resta in sospeso la vicenda Riscossione Sicilia. L’agenzia delle entrate home made, che ha dovuto mollare la presa sui morosi per gli effetti del virus, rischiava di non poter pagare gli stipendi agli oltre 600 dipendenti: così mamma Regione, dallo sguardo buono e magnanimo, è intervenuta nell’ultima Legge di Stabilità accantonando 25 milioni sotto forma di compensazione. Ma questa è solo una contingenza passeggera, seppur ricchissima. Il destino di Riscossione va inquadrato all’interno di un lungo, eterno, conciliabolo con Roma, che potrebbe scegliere di assorbirla nell’Ader, l’ex Equitalia.
Un altro ente vigilato dalla Regione siciliana, che fotografa la situazione disastrosa dei carrozzoni di Sicilia, è certamente l’Esa (l’ente di sviluppo agricolo), che resta tuttora al centro di una partita politica di grande impatto. Sebbene non si conoscano, nella maggior parte dei casi, le mansioni di dipendenti e trattoristi (i lavoratori stagionali), tanto meno gli obiettivi aziendali, l’Esa è un nominificio ad hoc: di recente, con delibera di giunta, è stato individuato il nuovo presidente del Cda: Giuseppe Catania. Rappresentante di Diventerà Bellissima (guida l’assemblea regionale del movimento) e fedelissimo di Nello Musumeci. Sopperisce a una vacatio di venti mesi: a ottobre 2018 Nicola Caldarone, rappresentante di Forza Italia, fu invitato “cordialmente” a dimettersi. L’Esa ha vissuto vicende paradossali negli ultimi anni: al netto di Catania, non ha più un Consiglio d’Amministrazione (l’assessore Bandiera l’ha fatto decadere per la mancata adozione dei rendiconti), tanto meno un dirigente generale (è rimasto Caldarone come facenti funzioni). Il quadro pittoresco di una stagione politica, lunga e dissennata, che ha messo da parte l’efficienza e al centro di tutto le poltrone. Non dovrebbe più stupirci, eppure…