Meno Tolkien e più Tatarella. Se fosse uno spot pubblicitario non potrebbe essere che questo. Una parola d’ordine, anzi un monito. Dove con Tolkien s’intende il settarismo della classe dirigente della nuova destra che circonda Giorgia Meloni (e il termine che allude a una forma di prigionia della leader è più che adeguato) mentre per Tatarella s’intende l’intelligenza prensile e armoniosa dell’uomo, Pinuccio Tatarella appunto, che negli anni 90 contribuì in maniera determinante a fare uscire Alleanza nazionale da un ghetto psicologico prima che politico.
Vinte le elezioni europee è forse arrivato il momento anche per Meloni: allargare, aprirsi, far somigliare sempre di più la sua creatura a un elettorato che ormai è quasi il 30 per cento non più il 3 per cento di una storia ormai conclusa. L’alternativa è aspettare che la sinistra si riorganizzi e occupi lei lo spazio lasciato libero dalla psicopatologica baruffa tra Renzi e Calenda. Tatarella cercava la maggioranza silenziosa, quelli che erano stati craxiani, repubblicani, liberali. E quando arrivava qualcuno che era convinto di rimestare nel parco giochi degli sconfitti e sfigati rispondeva così: “Qua non si perde tempo”.
Meloni avrà certamente letto il libro appena uscito di Alessandro Giuli che s’intitola “Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea” (Rizzoli). Intellettuale a lei consanguineo, giornalista, presidente della Fondazione Maxxi, amico e collega di chi lavora al Foglio, Giuli archivia in poche righe la stagione tumultuosamente fatua del sovranismo (“uno choc anafilattico sopraggiunto nel sistema immunitario dell’Occidente globalizzato”) per immaginare una destra moderna dunque matura e plurale. Una destra liberale, non rigorista ma rigorosa nel rispetto dei conti pubblici, che non si alimenta grazie alla paura ma la combatte col realismo della volontà, una destra illuminata. “Su questo crinale, oggi, a destra più che altrove, si gioca la madre di tutte le sfide”, scrive Giuli. “Transitare dalla mentalità degli esclusi e dei ‘governati’ a una logica di sistema, che alla lettera significa ‘stare insieme’ e oltre la lettera vuol dire appunto autopercepirsi come una classe dirigente sorretta da una visione prospettica della società”.
Poche, o forse punte persone, oggi, tra gli amici, i compagni di partito, in quel ceto politico che arranca alla spalle di una Meloni che sta già avanti anni luce rispetto a loro, parlano con questa chiarezza alla presidente del Consiglio che con l’azione di governo, con la prassi, e senza elaborazioni ideologiche, ha già (e completamente da sola) determinato modificazioni profondissime nella destra italiana. L’europeismo non teorizzato, ma praticato. Il rigore non teorizzato, ma praticato. Il patriottismo, ma non retorico. La lotta all’immigrazione, ma senza razzismi da vitellone padano in costume da bagno e cocktail in mano. Meloni in queste ore, e nelle prossime settimane, cercherà un accordo in Europa con il Ppe per la composizione della commissione. Forse voterà per Ursula von der Leyen, e lo farà perché vuole stare dove si prendono le decisioni: perché fare politica non è agitare slogan a capocchia (“mettete una decima”) ma fare politica significa tentare di modificare la realtà. E la realtà la si modifica governando, non urlando.
Eppure basterebbe leggere cosa scrivono i giornali più vicini a Fratelli d’Italia, o seguire i periodi balbuzienti di certi deputati e senatori della destra pur cresciuti con Meloni, per rendersi conto di quanto siano inadeguati ad assecondare la crescita di una leadership che non pensa a se stessa come un episodio o una parentesi della cronaca politica italiana ma può immaginarsi legittimamente come un capitolo della modernizzazione della politica italiana. Continua su ilfoglio.it