Più che una campagna elettorale sembra il congresso del Pd. L’ha impostata così Elly Schlein, da subito, in scienza e coscienza: in chiave tutta domestica (un sondaggione sulla politica italiana) e personale: la sua leadership, da rafforzare nella conta interna sui candidati e nel gioco a due con Giorgia Meloni, che finora non è decollato, in attesa del confronto da Bruno Vespa.
E forse va raccontata dall’inizio questa seconda tappa delle primarie, celebrate, scusate la tignosa ripetizione, in occasione delle elezioni europee più importanti di sempre, mentre il mondo sta cadendo a pezzi. Si parte con l’idea dei capilista civici, come atto di sfiducia rispetto al suo partito (e riesce solo in parte), si prosegue col tentativo, non riuscito, di mettere il nome nel simbolo come Giorgia. Finito il negoziato sui posti, da cui Elly Schlein esce mezza sfiduciata, parte la tenzone politica, sarebbe meglio dire a colpi di bandierine politiche, sempre col suo partito, perché di visione non c’è pressoché nulla. Piuttosto un susseguirsi di iniziative identitarie come la firma al referendum di Landini sul jobs act, manco ci fosse ancora Renzi a palazzo Chigi: è l’idea, al tempo stesso, di una prova di forza coi cosiddetti riformisti, cosiddetti perché, pure loro, hanno scelto lo schema di contarsi sui posti più che sulle idee e la scelta di una competizione tutta a sinistra con Conte e Landini, sul terreno del “vediamo chi è più a sinistra”. Né sull’Europa né sulla costruzione di una alternativa rispetto a chi abita palazzo Chigi non nel 2014 (Renzi) ma nell’anno del signore 2024 (Meloni). Continua su Huffington Post