Se Salvini in Sardegna vale davvero il 3,7 per cento, cioè l’equivalente di 25 mila voti, è quasi impensabile ipotizzare che, alle prossime Europee, possa scattargli un seggio nella Circoscrizione Isole, di cui fa parte anche la Sicilia. Gli servirebbe un rebound non indifferente a Palermo e Catania, una prestazione monstre di Sammartino, oltre al traino di Raffaele Lombardo, che però nelle ultime ore appare sempre più freddo e distaccato. Insomma, il voto sardo – che ha delineato la prima sconfitta della coalizione di centrodestra da quando governa la Meloni – è un segnale poco incoraggiante soprattutto per il Carroccio, che ha ottenuto un risultato catastrofico sotto il profilo numerico: ha fatto peggio di alcune civiche dello stesso Truzzu, come ‘Sardegna al Centro’ e ‘Alleanza Sardegna’, per citarne alcune. E’ precipitato nella polvere, pagando (forse) più di altri il cambio di rotta sul candidato.
Resta un fatto: Salvini ha perso. E in realtà continua a perdere da troppo tempo, senza che se ne (pre)occupi mai abbastanza. Il vicepremier, figlio delle sue contraddizioni e dei suoi errori, ha completamente dilapidato il bottino ottenuto alle Europee ‘19, quando nelle Isole ottenne il 20 per cento e un paio di europarlamentari (Tardino e Donato, oggi cuffariana). Un dato inimmaginabile con le proiezioni attuali. “Quando cambi un candidato in corsa – si è giustificato il Ministro delle Infrastrutture – è più complicato. Vale anche per un sindaco. Ma non sarò mai quello che, quando le cose vanno bene, è merito mio e quando le cose vanno male è colpa degli altri”. In Sicilia, quando lo stesso Capitano spinse per la sostituzione di Musumeci, la coalizione non ne risentì: Schifani ottenne una vittoria schiacciante, nonostante il dato già fortemente compresso della Lega.
Che oggi, sempre dalle nostre parti, sta attraversando una crisi d’identità con pochi eguali. Il Carroccio è spaccato in due e commissariato: della riorganizzazione del partito sul territorio sta occupandosi il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, chiamato dallo stesso Salvini per tamponare l’emorragia provocata dallo scontro fra Annalisa Tardino e Luca Sammartino. Cioè l’ex segretaria regionale, che cerca un altro pass per Bruxelles, e l’enfant prodige catanese, che alle ultime elezioni ha dimostrato tutto il suo peso elettorale (ottenendo 20 mila preferenze). I due non si piacciono, anche se lo scarso feeling ruota attorno al patto federativo con il Mpa di Raffaele Lombardo, fin qui rimasto lettera morta.
Non si tratta soltanto di indiscrezioni, di retroscena sui giornali, di discussioni sfociate in liti. E’ che quel patto, sottoscritto a Roma, non ha avuto alcun seguito effettivo. Sammartino, mettendosi di traverso, ha impedito la costituzione di un intergruppo all’Ars con dentro anche gli autonomisti. Della serie, ognuno a casa propria. Lombardo, l’altro giorno, si è sfogato con Live Sicilia: “C’è questo patto federativo con la Lega – c’è? – e dobbiamo ancora cominciare a parlare di liste e candidati. Quando accadrà? Sinceramente non lo so. Non dipende da me. Quando sarò invitato a parlarne, ne parleremo”. Su Sammartino, invece, “diciamo che non ci sono rapporti”.
Sembra che le sconfitte in serie del Carroccio, il crollo nei sondaggi, la subalternità a Meloni, non rappresentino un bel biglietto da visita per affrontare una campagna elettorale. Tanto più quando sai, per certo, che uno dei tuoi alleati rema contro. Fra l’ex governatore e Sammartino non ci sarà mai un matrimonio (nemmeno d’interessi). Semmai potrebbero provare a sommare i consensi dell’uno e dell’altro, nella corsa per Bruxelles, anche se per eleggere il proprio europarlamentare d’area si rischia di aizzare una rivalità interna già fortissima. Questi enigmi hanno prodotto la stasi. E una serie di problemi che Durigon sta cercando di affrontare. L’esordio a Messina, a casa di Nino Germanà (che aspira a diventare il proprio segretario regionale), non è stato esattamente il segnale di distensione che l’ala tardiniana si aspettava. Perché Germanà è sponsorizzato da Sammartino.
Lo stesso vicepresidente, per altro molto vicino a Schifani, non è esattamente il collante del centrodestra. Fratelli d’Italia si è molto adirata con lui per aver sabotato l’approvazione della norma “salva ineleggibili”, il cui effetto è stata la decadenza di un solo patriota (Nicola Catania, rimpiazzato da Giuseppe Bica) e non invece del collega Daidone, che avrebbe favorito l’ingresso di un uomo vicino all’esponente leghista (Nicotra). Il partito della Meloni si è vendicato affossando la norma sulle province e mandando per la seconda volta il governo gambe all’aria. Mr. Preferenze vanta certamente un bel granaio di voti, ma resta divisivo. Anche il presidente dell’Ars Galvagno, che gli contende la palma del prossimo candidato alla presidenza, ha segnalato le sue pecche nel gestire i rapporti fra deputati e governo (Sammartino ha la delega ai rapporti con il Parlamento). Mentre i buoni rapporti con Totò Cuffaro non dovrebbero portare a un ingresso della DC nella lista del Carroccio.
E poi c’è Salvini: un giorno capitano e trascinatore, oggi controproducente. Cateno De Luca, per l’ultima campagna elettorale a Messina, gli chiese di non presentarsi nemmeno, e la sua coalizione (con dentro la Lega) vinse a mani basse. Oggi, fra mille difficoltà, il segretario leghista cerca una exit strategy per scongiurare l’estinzione. La Sicilia, già dalle prossime Europee, potrebbe diventare la cavia per sperimentare una nuova alleanza coi centristi, che prevede di spedire in orbita il nuovo Udc. Un contenitore non meglio definito, che attingerebbe alla Democrazia Cristiana e a qualche ex di Forza Italia, come Nino Minardo, che sarebbe la punta di diamante del nuovo schieramento a Montecitorio. Insomma, un laboratorio perenne senza alcuna prospettiva di solidità e di governo.
Stante gli ultimi numeri, anche il vero obiettivo di Salvini – fare la guerra alla Meloni per strapparle un po’ di consenso alla volta – si sta rivelando velleitario. Prima di dare l’assalto a Giorgia, dovrebbe sincerarsi di non sparire. Perché l’Abruzzo, la Basilicata e infine anche le Isole, alle Europee, potrebbero sancire il suo vero fallimento: cioè il tentativo di trasformare la Lega Nord in un partito nazionale. Non c’è riuscito. Nonostante mille espedienti e un paio di modifiche al nome (ricordate Prima l’Italia?). Le vie della politica sono infinite, ma nel caso di Salvini un po’ meno: basterà l’ostentazione sul Ponte e sul terzo mandato per i governatori a renderlo credibile?