Non c’è alcuna distinzione tra falchi e colombe; né fra lupi cattivi e timidi agnellini. Fratelli d’Italia, in Sicilia, non ha aperto alcuna crisi, ma l’ha soltanto minacciato, perché soggiace a una logica romano-centrica che, in queste ore, ha suggerito, anzi imposto, di “abbassare i toni”. Così la crisi è rientrata in meno di 24 ore, giusto il tempo servito a Lollobrigida e La Russa per calmare gli animi e spegnere i bollori. E poi, i bollori per cosa? Per la mancata approvazione di una legge “aberrante” (citando Cateno De Luca) che avrebbe fatto arrossire pure la Meloni? Perché un paio di deputati “ineleggibili” rischiano di decadere? La questione di principio era debole, così come il tentativo di appellarsi alla mancata revisione della griglia dei manager, con la richiesta – presentata fuori tempo massimo – di invertire l’ordine di un paio di commissari designati.
C’era davvero poca carne al fuoco per minacciare la crisi. Il voto segreto, peraltro, ha sprigionato la libertà di coscienza e la rabbia repressa di una decina di ‘franchi tiratori’, stanchi delle soverchierie dei patrioti. Delle arroganze di una classe dirigente, che dirigente non è. Anzi, in questa occasione ha mostrato la sua pochezza (in termini politici, va da sé). Da qui si giunge dritti al quesito: chi comanda in Fratelli d’Italia? Chi ha fatto sentire la propria voce, mercoledì pomeriggio, in quella chat di gruppo che sembrava il Vietnam? La risposta è unanime: Manlio Messina. E’ il Balilla a muovere i fili da Roma, a dire “questo si fa, quell’altro non si fa”. A dettare una linea che molti dei suoi allievi – pensate alla Amata o Scarpinato, nei rispettivi assessorati – seguono e interpretano senza fiatare.
Ai guardiani della fede verso l’ex assessore al Turismo, che gode dell’appoggio totale del ministro Francesco Lollobrigida, il cognato d’Italia, si sono aggiunti alla spicciolata quasi tutti i deputati dell’Ars, ad eccezione di pochi battitori liberi: come Marco Intravaia, che ancora sperava nella promozione di Ferdinando Croce al Civico di Palermo (invece è finito all’Asp di Trapani) e l’assessore Alessandro Aricò, uno dei più fedeli a Schifani. Soltanto in pochi riescono a defilarsi rispetto al cono d’ombra dei gerarchi romani. Persino Ignazio La Russa, che un anno e mezzo fa aveva benedetto la candidatura unitaria di Renato Schifani alla Regione, oggi fatica ad amministrare le turbolenze d’umore di Messina, e finisce per assecondarlo.
In Sicilia anche Gaetano Galvagno ha intrecciato il proprio destino con quello dell’ex assessore al Turismo. Il giovane presidente dell’Ars viene descritto come “politicamente capace”, ma col trascorrere dei mesi, alla promessa di rigore (anche nel legiferare) è subentrata la smania di assecondare alcuni capricci al limite dell’illegittimità costituzionale (come la “salva ineleggibili” e la sanatoria delle case abusive sulla battigia). Eppure era stato Galvagno a dare una dritta al parlamento, chiedendo di limitare il rischio di impugnativa e ad avvertire Schifani sulla necessità di aumentare i giri del motore al governo.
Fratelli d’Italia, che ha un vertice riconoscibilissimo, dovrà fare luce su alcune questioni interne: ad esempio la presenza dei pretoriani di Nello Musumeci. Se il Ministro, da un lato, si gode l’esperienza romana (e ne ha ben d’onde dopo la stroncatura del 2022), infischiandosene delle sorti del partito siciliano, Ruggero Razza sembra l’unico in grado di ritagliarsi uno spazio di manovra: ha ottenuto che la moglie senza voti e senza esperienza venisse nominata assessore al Territorio e Ambiente; che il giovane Ferdinando Croce, classe ’82, finisse a capo di una Azienda sanitaria come quella di Trapani (c’era in ballo persino il Policlinico); e ha il merito, Razza, di essere riuscito a tessere rapporti cordiali con Raffaele Lombardo, che nel caso in cui deflagrasse la federazione con Salvini, potrebbe decidere di sostenerlo nella corsa ormai certa alle Europee. L’ex assessore alla Sanità vanta ancora alcuni crediti che neppure Lollo & Co. hanno saputo (o voluto) cancellare. E l’abilità dell’opportunismo, che in politica fa sempre comodo e spesso è prevalente.
Cosa assai diversa, invece, per gli attuali coordinatori di partito. Quasi assenti. Cannella è impegnato nel ruolo d’assessore a Palermo e non gode della considerazione che meriterebbe un leader. Pogliese ha un dono: i voti. L’ex sindaco di Catania, che s’è dimesso per diventare senatore, fin qui è riuscito a tenere la barra dritta, anche se da giorni si vocifera di una mozione per scalzarlo dalla guida di FdI nella Sicilia orientale. Non ha il gradimento di Via della Scrofa, non è riuscito a imporre una linea per le nomine dei manager, non ha il physique du role per reggere all’assalto del Balilla. Catanoso, suo fedelissimo, è uscito allo scoperto contestando la “salva-ineleggibili”, con una posizione che risulta incompatibile rispetto alle forzature d’aula operate dai patrioti: “Dico che c’è una legge e le leggi vanno rispettate e non si doveva porre il problema del superare l’ineleggibilità con una norma retroattiva. E’ una cosa che una persona di destra non comprende”.
Si ripartirà proprio da qui. Dai distinguo, intollerabili per i vertici, che finiranno per provocare uno smottamento e un cambio della guardia. La prima vittima del nuovo ordine è stato Raffaele Stancanelli, che a sei mesi dalla fine del suo mandato a Bruxelles, ha detto di non ricandidarsi perché il partito non risponde alle sue sollecitazioni. E’ stato fatto fuori (e sembra che la Lega sia disposta a fargli ponti d’oro). E in generale sono pochi i reduci dall’esperienza della destra, quella vera, che significava molto in termini di valori e ancor più di principio. La destra, come dice Catanoso, non avrebbe mai avallato una legge per salvare gli ineleggibili. Oggi la vera ideologia è il “potere”. Comanda chi ha più santi in paradiso e le spalle coperte. Le competenze finiscono ai margini. Le arroganze vengono spacciate come norme di buon senso. Le sanatorie come interpretazioni autentiche. E si offendono pure se qualcuno osa mettersi di traverso.