In attesa di una riforma vera e inoppugnabile – l’unica all’esame delle commissioni è quella proposta da Sammartino sui Consorzi di Bonifica – l’Ars ne potrebbe adottare una farlocca o, comunque, monca in partenza: siamo parlando del ddl di riforma delle province, che qualche giorno fa ha fatto segnare un passetto in avanti. La commissione Bilancio dell’Assemblea regionale, con un emendamento a firma Marco Falcone, ha infatti previsto 10 milioni di copertura finanziaria per garantire sei mesi di funzionamento agli enti d’area vasta (ne servirebbero altri cinque solo per indire le elezioni). In pratica, una forma di investimento iniziale, come accade per le start up. Anche se sul tema, a dispetto di tutto il resto, la Regione è più avanti di quanto non suggerisca il buonsenso.
E’ stato l’ex presidente Totò Cuffaro a spiegare, in breve, l’iter di legge che porterà alla reintroduzione delle province, abolite nel 2013 da Crocetta, e di circa 300 poltrone (attraverso l’elezione diretta degli organi istituzionali): “Manca soltanto la presa d’atto della I Commissione, presieduta dall’On. Ignazio Abbate della Democrazia Cristiana, che – ricorda Cuffaro – come tutto il nostro partito, è un grande sostenitore del ritorno delle province. L’approvazione della legge sarà un impegno mantenuto con gli elettori siciliani del governo Schifani. È un risultato importante che ci consentirà una migliore rappresentanza democratica e la salvaguardia del territorio”.
Cuffaro incassa il risultato all’indomani del meeting di Forza Italia che, probabilmente, ne ha decretato l’esclusione dal prossimo parlamento europeo. Anche se in Commissione, per la verità, a fare la parte del leone sono stati Forza Italia e Fratelli d’Italia: l’improvvisa accelerazione, infatti, significa che l’obiettivo è votare nella stessa data delle Europee (il 9 giugno), sacrificando i partiti “locali” come Dc ed Mpa. Anche se il percorso è più ardimentoso di così. Non si tratta soltanto della presa d’atto di Abbate o delle modifiche che verranno proposte in aula, a Sala d’Ercole. Ma c’entra, soprattutto, l’incompatibilità della norma siciliana con la Legge Delrio, quella che ha riformato gli enti locali e rimpiazzato le province con le Città metropolitane, tuttora in vigore a Roma. Se non ci fosse da piangere, verrebbe quasi da ridere.
La Regione, che in questo primo anno di governo Schifani ha viaggiato a scartamento ridotto, e di cui non si ricorda un solo provvedimento meritorio, è in prima linea per ricambiare tutto. Talmente avanti da non attendere le conclusioni di Palazzo Chigi e rischiare l’ennesima impugnativa di una legislatura partita malissimo. A riassumere le regole del gioco sono i Cinque Stelle: “La reintroduzione dell’elezione diretta dei presidenti delle Province è carta straccia finché non avverrà il superamento della legge Delrio che spetta al parlamento nazionale. A Roma – spiegano i deputati grillini – pare non vi sia traccia di questa volontà; la manovra di bilancio adesso in discussione non ha previsioni di spesa in funzione della riforma sulle province, il che ci fa facilmente intuire che il governo Meloni ha rimandato l’argomento a data da destinarsi. A questo punto, non comprendiamo le volontà del governo Schifani. Giungere ad indire le elezioni, sulla base di accordi informali tra Roma e Palermo, senza che la Delrio sia stata ribaltata, rischierebbe di scatenare contenziosi su contenziosi fino alla pronuncia dell’incostituzionalità”.
Questa situazione è nota fin dall’inizio ed è stata denunciata, ai tempi, anche dal capogruppo di Fratelli d’Italia, Giorgio Assenza. Qualsiasi calcolo prudenziale, però, è andato a ramengo di fronte alla smania di Schifani di assicurarsi un altro primato (dopo la denuncia del cartello fra Ita e Ryanair, mai provato). E così ecco le presunte “rassicurazioni” di Calderoli, noto estimatore dell’autonomia siciliana (si scherza). Inoltre, “Palazzo Chigi non ha mai manifestato alcuna contrarietà al ddl di cancellazione della Delrio” ha detto Schifani in una recente intervista a Live Sicilia. Pur non essendo fra le priorità dell’agenda Meloni “c’è un via libera implicito, corroborato anche dalle dichiarazioni di diversi leader nazionali favorevoli al ritorno dell’elezione diretta. Evidenzio inoltre che il governo nazionale non ha impugnato la nostra legge che autorizzava la proroga degli attuali commissariamenti nelle Province e ricordo che in quel testo è contenuto un chiaro riferimento alla volontà di tornare al voto diretto”.
In effetti non era stato il governo, bensì la Consulta a bollare come “incostituzionale” una legge del 2022, approvata dall’Ars, che rinviava di un ulteriore anno l’elezione di secondo livello degli organi dei Liberi Consorzi e delle Città metropolitane. Segnalando in blu il reiterato rinvio dei processi democratici (saremmo già a quota dodici) con cui “il legislatore regionale ha di fatto impedito la costituzione degli enti di area vasta in Sicilia”, in violazione degli articoli 3, 5 e 114 della Costituzione. Per tutta risposta, l’Ars ha approvato una leggina per fare in modo che i commissari straordinari fossero soltanto dirigenti regionali. Gli ultimi, nominati lo scorso 14 settembre, rimarranno in carica fino a quando la matassa non verrà sbrogliata. Sembra una commedia scritta male. E invece una logica c’è: la politica, atteso che da qui in avanti non mancheranno occasioni per stabilire pesi e contrappesi (dalle mance in Finanziaria alle nomine della sanità) sta preparando il campo per la più grande delle infornate. La segretaria del Carroccio Annalisa Tardino, tradendo una certa sicumera, ha spiegato che “la Lega si assicurerà la guida di almeno una tra Palermo, Catania e Messina. Del resto il partito ha già rinunciato a posizioni di vertice in alcune città capoluogo. Gli alleati dovranno tenerne conto”.
Più che salvaguardare il territorio (come dice Cuffaro), ripristinare le funzioni degli enti e cancellare la trovata populistica di Crocetta, sembra che l’unica clausola di salvaguardia di questa operazione sia l’autoconservazione della politica. Con l’atteggiamento tipico della “casta”. Per fare in modo che la gente comprenda, e magari approvi, i 70 deputati dell’Ars potrebbero impiegare l’attesa a pensare a qualcos’altro: a una riforma della burocrazia, a un piano di sviluppo e occupazione, a come non perdere i finanziamenti del Pnrr, a lenire le ferite della sanità. Ce ne sarebbero di cose da fare, ma – chissà come – l’attenzione ricade sempre sulle più futili e tortuose.