Renato Schifani ce l’ha fatta a piazzare una bandierina a Palazzo delle Aquile. La nomina di Pietro Alongi, per altro senza la delega al P, è stata annunciata con giubilo dal ventriloquo del governatore, ossia l’altro esponente della Santissima Trinità, Marcello Caruso: “La scelta di Alongi come nuovo assessore risponde ad una logica politica e di competenza” e chiude “un vulnus di rappresentanza del nostro partito”, ha detto il commissario regionale di Forza Italia. Dopo aver bloccato per alcune settimane l’attività dell’Amministrazione comunale, arrivando a indispettire pure Lagalla – che di professione fa il sindaco ma non il santo – il partito del presidente della Regione, ridotto a un partitino di fratelli e compari, è riuscito a ottenere il suo primo risultato da un anno a questa parte: colmare le lacune.
Poco importa dei problemi dei palermitani, e ancor meno di quelli dei siciliani, quando c’è una questione (numerica) da risolvere. Schifani – al netto delle compensazioni che Lagalla ha pensato per evitare la fuga di Fratelli d’Italia – è convinto di aver ridato autorevolezza agli azzurri, di aver messo i puntini sopra tutte le “i”, di aver sommato competenza a una giunta che lui stesso aveva azzoppato: con la richiesta di far fuori Mineo e la Pennino, prima di concedere una seconda chance a quest’ultima. Il trofeo Alongi (per altro, si vocifera, senza la delega al Patrimonio) potrà essere esibito lungo il percorso dai Quattro Canti a Piazza Pretoria, ma non avrà abbastanza eco per smuovere le coscienze alla Regione (magari!) e dalle parti di Palazzo d’Orleans.
“Zero riforme” è il titolo dedicato dall’edizione palermitana di Repubblica, ieri, al centrodestra cincischiante. Non c’è traccia dell’azione di governo, e il parlamento se la prende comoda: neppure la proposta di sanatoria delle 200 mila villette al mare, che pure aveva raccolto molte tesi a favore, verrà discussa prima di gennaio. Prima ci sarà da approvare la Finanziaria, poi da scegliere i manager della sanità e infine da preparare le elezioni Europee. Chi se le fila le riforme? Nemmeno il partito del presidente, in questo clima da dismissione, è in grado di proporre nulla. Il capogruppo all’Ars Stefano Pellegrino, sempre buono a difendere le cause perse (della politica s’intende), non proferisce più parola. E gli altri nemmeno. L’unico obiettivo raggiunto, a parte piazzare Alongi in giunta a Palermo e inventarsi Caruso leader di partito e capo di gabinetto, è stato espugnare il fortino di Gianfranco Micciché. Coinvolgendo tutti – o quasi – i nemici dell’ex coordinatore.
Per la verità, alcuni rimangono sull’Aventino: ad esempio l’ala riconducibile all’assessore Falcone (che però esercita la sua funzione con professionalità, senza destare sospetti). Sono passate poche settimane dall’esternazione pubblica di Margherita La Rocca Ruvolo, ex presidente della commissione Salute all’Ars, che aveva contestato i “tavoli ristretti” in cui – per bocca della stessa DC – si decidevano le nomine della sanità. Ricordate il “retrobottega di Cuffaro”? Molti forzisti, a dispetto delle future alleanze, non sono stati invitati e non sarebbero neppure disposti a entrarci. Tollerano a malapena gli accordi con Totò e il progetto democristiano per invadere Bruxelles. Ovviamente non ci sarà alcuna invasione, ma di questo passo, a giugno, quanti azzurri troveranno spazio nel listone? Considerato, per altro, che due posti andranno riservati a esponenti sardi?
I berlusconiani sono primule sempre più rare. Gli ultimi ingressi sono figli della realpolitik, del calcolo, talvolta del mistero. Ad esempio, cosa ci fa la signora Chinnici, figlia prediletta dell’Antimafia, nel partito di Schifani alleato di Cuffaro? E che ci fa Giancarlo Cancelleri, dopo una carriera sulle barricate grilline, allineato sul garantismo di Tajani? E soprattutto, a cosa dobbiamo il ritorno (fin qui mascherato) dell’abile tuttofare Gaetano Armao, che alle ultime elezioni – addirittura – provò a far perdere Schifani candidandosi con il Terzo Polo? Pare, e alcune fonti lo confermano, che il suo ritorno a Palazzo d’Orleans, da vicepresidente “occulto”, abbia indispettito pure gli “amicissimi” della DC, che considerano l’ex assessore all’Economia un uomo ancora troppo vicino all’arcirivale Raffaele Lombardo.
La Forza Italia di Schifani, quella che nasce e muore in Sicilia, non vanta grossi crediti neppure a livello nazionale. Soprattutto per la smania del governatore di voler correggere (se non addirittura contraddire) la linea Tajani, proponendo un partito che passi dalla visione leaderistica di Berlusconi a quella pluralistica – ma forse un po’ troppo ampia – di Schifani medesimo. La richiesta di visibilità per i dirigenti del Mezzogiorno, fin qui snobbata ai piani alti, non è detto che verrà accolta più avanti. Questo è il motivo per cui FI Sicilia, senza stampelle, non ha alternative a un lento sgretolamento.
Basterà la bandierina di Alongi a rivitalizzare un partito che si credeva al centro dell’impero e che invece s’è riscoperto un feudo quasi insignificante? Basterà infilzare il sindaco Lagalla – rimasto senza partito e senza copertura – per riacquisire credibilità e peso istituzionale? Basterà qualche viaggio della speranza al Ministero delle Infrastrutture per incassare la fiducia di Salvini e zittire le critiche di Lombardo & C.? Basterà il ritorno del prode Armao per risolvere la grana dei fondi europei rimasti nel cassetto e delle migliaia di autorizzazioni arretrate, di competenza della “sua” Cts, ancora da esitare? Forse basterà a sopravvivere. Ma fin qui non è servito neppure a guadagnarsi l’invito per il compleanno dell’anno: quello di Mr. Nakajima al Politeama.