Mano nella mano con Totò Cuffaro, al congresso della Democrazia Cristiana. La foto ha fatto il giro del web. Il rapporto fra Renato Schifani e il leader intramontabile della Dc, entrambi reduci da un bagno di folla all’Astoria Palace, è servito a rinfrancare soprattutto il primo, sempre più a disagio nel ruolo di collante del centrodestra. Totò però non è il solo nel cuore del presidente, che in questi mesi ha lavorato alacremente ai fianchi di Matteo Salvini, dal quale ha ricevuto attenzioni degne di un capo di Stato. Con una coda imprevista, qualche giorno fa.
Quando schiumi di rabbia, pure le migliori intenzioni infatti rischiano di diventare un azzardo. Per questo Schifani, accorgendosi del cortocircuito istituzionale provocato dal suo rimbrotto sul commissariamento della Palermo-Catania (“Se passano altri mesi, mi sottrarrò da questo incarico”) ha subito aggiustato la mira: “Non ce l’ho con Salvini”. Ci mancherebbe pure: il Ministro delle Infrastrutture lo sente “due-tre volte al giorno, più di mia madre”, osserva il leghista. Tagliare i ponti con lui significherebbe bruciarsi. Perdere ogni sostegno romano, giacché con Fratelli d’Italia la situazione è compromessa e in Forza Italia, sponda Tajani, lo osservano con un pizzico di diffidenza.
Matteo no. Non si tocca. E così, dopo aver lamentato l’assenza di un decreto attuativo che gli consenta di entrare pienamente nel ruolo di commissario dell’A19, di impugnare la cazzuola e velocizzare i cantieri, Schifani ha preferito dirottare altrove i motivi della sua ira: “Il testo del Dpcm per rendere operativa la mia nomina di commissario è da tempo fermo negli uffici del ministero dell’Economia e delle Finanze, non certo per una responsabilità del ministro Salvini”. Ma di Giorgetti, altro leghista di peso, che con Salvini fatica a prendersi nonostante le dichiarazioni di facciata. Cambiare bersaglio, come fosse uno sport, consente al governatore “narciso” di sopravvivere politicamente. Anche se Giorgetti – piccolissimo inciso – è colui che dovrebbe concedere alla Sicilia una deroga al blocco delle assunzioni (meglio tenerselo caro).
Questo piccolo siparietto a margine della visita di Salvini a Caltanissetta, per la prima festa sicula del Carroccio, è servito a comprendere ancor di più la strategia schifaniana. Il presidente della Regione, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali e della difficoltà a gestire la coalizione, gioca con due mazzi di carte, a seconda che il banco si trovi a Roma o a Palermo. Nella Capitale il punto di riferimento è Matteo, che “ha sempre dimostrato una grande attenzione per la nostra Isola” (tradotto: il Ponte sullo Stretto, gli investimenti sull’Alta Velocità e sulle strade). Per questo, quando vola a Roma (rigorosamente Aeroitalia), Schifani diventa il tifoso della destra più spietata: dei Vannacci, dei Le Pen, degli Orban; di una narrazione che trova la sua cifra distintiva nella “bestialità”.
In questo patto non scritto fra istituzioni, Salvini ha il suo bel tornaconto. Dare alla Lega un terreno fertile per attecchire. Nel 2019 in Sicilia prese una valanga di voti, che gli permise di eleggere due deputati al parlamento europeo. Adesso spera di strapparne almeno uno. Ma c’è dell’altro: la presenza concreta e distintiva al governo della Regione, dove Sammartino si è guadagnato la fiducia e margini di manovra (specie sul fronte dell’agricoltura); la condivisione di alcune scelte dirimenti, a partire dalle nomine (quella sul Consorzio Universitario di Agrigento sarà un’occasione per misurare la fedeltà del governatore); la lotta comune all’avanzata di Cateno De Luca, che in altri tempi sarebbe stato accolto sul prato di Pontida, e invece oggi c’ha dovuto rinunciare (“Non è invitato perché ci insulta un giorno sì e uno no”). I rapporti basati sulla fiducia si costruiscono con la pazienza.
Ciò che invece sorprende è il secondo mazzo di carte, che dimostra le geometrie sgangherate e il funambolismo di Schifani, finito dritto tra le braccia di Totò Cuffaro. La quintessenza del democristianesimo, uno che “una parola è poca e due sono troppe”, che non ha remore nel discutere di diritti e nel cantare ‘Bella Ciao’. Uno che sbandiera amore per il centro e interviene alle feste di paese (altro che Papeete). Totò è l’opposto di Matteo. Sono come il giorno e la notte. Non c’azzeccano nulla: per storia, per convinzioni personali, per visione del mondo. “In un tempo dove la politica assume un atteggiamento sovranista e populista e appare un’anomalia essere moderati – ha detto di recente il segretario della DC, rimarcando le distanze – io urlo il mio essere democratico e popolare”.
E allora, perché lui? Quale calcolo c’è dietro? Cuffaro è una fine stratega e, al contrario di Schifani, mastica di governo. Potrà reggere la baracca, o dare consigli utili, quando il “vero” presidente sentirà di non farcela. Eppoi Totò è meglio di Lombardo, che con Salvini ha chiuso in maniera burrascosa alla vigilia delle ultime Politiche. Almeno con Cuffaro non esistono terreni di scontro, ma solo di caccia (le solite nomine). In queste alchimie apparentemente prive di logica – se non quella del galleggiamento – traspare tutto il narcisismo del presidente della Regione. Impegnato a occupare Palazzo d’Orleans per mero prestigio. Per piacersi ancora un po’. Per contare un po’ di più. Per rendersi protagonista di una storia che non ha contribuito a scrivere. Per sopravvivere alla tenaglia che il partito di Tajani e quello della Meloni gli stanno stringendo intorno. Potrebbe risultare letale.