Al “povero” Renato Schifani non fanno riesumare neppure le province. In attesa che si riunisca la commissione Bilancio dell’Ars per determinare le coperture utili al ripristino degli enti intermedi, è stata la commissione Affari istituzionali del Senato a mettere in ghiaccio la questione: se ne riparlerà dopo la Finanziaria (e dopo aver cancellato la riforma Delrio). Insomma, una maledizione. Il tema, che aveva appassionato i partiti, sembrava l’unico in grado di garantire un orizzonte alla maggioranza, fin qui imbalsamata. E invece bisognerà inventarsi dell’altro.
Lo stallo, però, non è figlio dell’approssimazione e dell’incapacità. Certo, la giunta è sgasata e non partorisce una sola proposta di riforma in grado di azionare il tasto play a un parlamento abulico. I motivi della paralisi, però, vanno ricercati nei frequenti malumori che caratterizzano l’azione di Renato Schifani e del suo governo. Il quale non gode della fiducia dei partiti. Non di tutti, quanto meno. L’unico fedelissimo fin qui si è dimostrato Totò Cuffaro, forte di una partnership con Forza Italia che dovrebbe garantirgli di eleggere un deputato alle Europee (sotto il simbolo dei berluscones). Gli altri – chi più chi meno – non esita a palesare i motivi di un’insoddisfazione profonda.
Le prove più tangibili sono le esternazioni di Fratelli d’Italia rispetto ad alcune azioni e dichiarazioni di Schifani. L’ultima è riferita alla nomina di Fabio Fatuzzo, ex parlamentare di Alleanza Nazionale, come commissario unico della Struttura commissariale sulle acque reflue (e di Toto Cordaro come suo vice). E se gli “scienziati” di Schifani non sono da meno di quelli della Meloni (Assenza dixit), anche la gestione di Sac ha lasciato un profondo malumore nei patrioti. Esternato, in primis, dal neo sindaco di Catania, Enrico Trantino. Persona perbene e politico risoluto nel pretendere spiegazioni che nessuno dà. E che adesso i magistrati indagano.
Fratelli d’Italia ha avuto svariati servigi da Schifani (averlo portato sul trono d’Orleans costituiva una specie di cambiale in bianco), ma la riconoscenza (reciproca) non è infinita e qualcosa si è guastato. Da quando il presidente della Regione ha vestito i panni del capo corrente (di un altro partito: Forza Italia), i meloniani hanno iniziato a insolentire. Chiedendo sempre di più. E ricevendo in cambio umiliazioni pubbliche mal digerite: a cominciare dalla messa in mora dell’allora assessore al Turismo, Francesco Scarpinato, dopo il caso Cannes; passando per il ritiro in autotutela di un provvedimento da mezzo milione a favore del gruppo Rcs Sport di Urbano Cairo per l’organizzazione di un evento mondano a Palermo; infine per la revoca dei contratti con gli albergatori dopo il fallimento di SeeSicily (in quel caso la colpa venne fatta ricadere sul dirigente Cono Catrini, che nel giro di qualche settimana fu rimosso dal dipartimento).
Non mancano gli incidenti di percorso e non manca questa profonda insofferenza verso un governatore spento nell’azione di governo, e attivo solo sul fronte dei proclami e delle nomine. Anche il presidente dell’Ars Gaetano Galvagno, dopo un primo richiamo alla brace (“Non c’è carne al fuoco”, disse esasperando i toni col governo) ha battuto in ritirata: ma così facendo rischia di passare per una Volo qualunque. Che non sia il caso di un nuovo appello per dare legittimità all’Assemblea?
Che il malumore serpeggi sotterraneo si evince da altri episodi, in apparenza sciocchi, che esulano dai summit inutili convocati da Marcello Caruso per riportare la pax. Ad esempio, non tutti digeriscono il fatto che lo stesso Caruso, capo di gabinetto di Schifani ma soprattutto commissario regionale di FI, partecipi alle riunioni di giunta in qualità di assessore “aggiunto”; o che un assessore non possa dare una notizia ai giornali, anche di pregio, senza che ci sia sopra il sigillo presidenziale. Piccinerie, impuntature, pretese che non trovano alcuna corrispondenza di amorosi sensi nell’esecutivo. Tanto meno nei partiti, il cui margine di manovra è per forza di cose ridotto. Quasi annientato. Così cresce la diffidenza e si svilisce la coesione.
A qualcuno non sarebbe piaciuto il tentativo di Cuffaro di accentrare sotto un singolo assessorato (quello alle Autonomie locali, gestito dal Dc Andrea Messina) i fondi della programmazione comunitaria 2021-27 destinati ai Comuni. Lo stesso Cuffaro si è ritrovato a smentire l’indiscrezione giornalistica de ‘La Sicilia’ lasciando trasparire un velo di fastidio per essere stato tirato in ballo “non so da quale parte politica anche se ho la mia idea, e per quale interesse (anche su questo ho la mia idea)”. Segno che c’è più di una frattura e che – al netto dei ragionamenti di cui sopra – l’idea del triumvirato che coinvolge l’ex governatore, Schifani e Lombardo – in vista delle prossime elezioni europee – resta una prospettiva sin troppo ottimistica.
Gli Autonomisti, ad esempio, si sono più volte scontrati con il presidente della Regione: una prima volta per lo stop al rilascio delle autorizzazioni propedeutiche alla realizzazione degli impianti rinnovabili; poi sulla gestazione del bando per i termovalorizzatori e sulla rimodulazione di un centinaio di milioni della vecchia programmazione UE (da spendere entro l’anno). A un certo punto minacciarono di uscire dalla giunta se non si fosse posto rimedio all’anomalia dei due elenchi dei direttori generali delle Aziende sanitarie (i “maggiormente idonei” e gli “idonei e basta”). Protagonista del corpo a corpo con Schifani – anche se ultimamente, a mezzo stampa, sono arrivati segnali di riconciliazione – è stato l’assessore all’Energia e ai Rifiuti, Roberto Di Mauro. Uno che non le mandava a dire neppure a Musumeci.
Questa giunta, insomma, non ha alcuna agibilità politica. Non si basa sulla fiducia reciproca tra assessori. Piuttosto, sembra reggersi su una manifesta insofferenza nei confronti del presidente. Il silenzio degli innocenti: per evitare di fargli un torto, e di finire nella “black list”, nessuno parla. E nessuno fa, cosa assai più grave. Qualsiasi cosa, d’altronde, verrebbe interpretata come una fuga in avanti o un tradimento. Allora meglio battere in ritirata, e tenere i guizzi per un’altra volta. A questo male oscuro del centrodestra non c’è rimedio, se non litigare. Da qui l’unica strategia: fare il meno possibile e spartirsi tutto il possibile. Nomine, incarichi, mance. Lunga vita al re.