La vera noia del Pride sono le chiacchiere sull’eterno, logoro, stantìo, serioso dilemma: testimonianza civile o Carnevale dei sessi? La vera gioia del Pride è nelle tre, quattro ore della sfilata dove hanno uguale cittadinanza la certificazione dei diritti acquisiti (e la richiesta di quelli ancora da acquisire) e la sfrenata esuberanza dei carri, degli slogan, degli abbracci, dei baci, dei balli, delle canzoni e delle trans vestite da Oba-Oba. Ovvero testimonianza civile e Carnevale dei sessi. Mettiamola così e spediamo in soffitta il pallosissimo dilemma. Chiuso.
Tutto il resto (ovvero gli altri 364 giorni dell’anno) è lavoro, sacrificio, dedizione, spremuta di meningi di singoli e di collettivi, di volontari e di associazioni non tanto per pensare a un Pride diverso per l’anno successivo ma per fabbricare un mondo diverso, almeno un tantinello da questo che sembra avere ingranato la marcia indietro.
Già, perché il Pride è sempre gay ma essendo anche “politico”, capirete che è un cincinino preoccupato, di questi tempi, è sovraccarico di pensieri. Prima c’è il “feroce Sa(la)lvini” che abolisce motu proprio genitore 1 e genitore 2. Poi c’è il ministro della Famiglia, Fontana, che dopo essersi comunicato ogni mattina nella chiesa romana della Santissima Trinità dei Pellegrini dove si officia il rito in latino, arriva nel suo austero studio e vuole cancellare le famiglie arcobaleno. E c’è la sua guida spirituale, don Vilmar Pavesi, che sostiene che gli omosessuali siano “istigati dal diavolo”. E come non bastasse, ancora più in alto il Papa consiglia che, laddove si riscontrassero atteggiamenti omofili nei bambini, occorre telefonare allo psichiatra (scartare la stagnola dorata di un formaggino e farsene un anellino basterà?) mentre nelle retrovie parrocchiali uno dei suoi innumerevoli sacerdoti dice che il crollo del ponte Morandi a Genova è “colpa dei gay”. Restano almeno in quinta e non entrano nell’agone macho-restauratore i 5 Stelle preoccupati di mantenere quel po’ che resta della propria immagine di movimento yè-yè e il premier Conte alle cui dichiarazioni tv comunque il portavoce Rocco Casalino assiste, due passi indietro, con in viso lo stesso malcelato turbamento di quando incrociava Pietro Taricone nella casa del “Grande Fratello” diciott’anni fa.
Capirete che prosopopea istituzional-clericale (con spezie di folclore) o colpi di sole a parte (perché la realtà vera è poi quella delle aggressioni fisiche sempre più frequenti, ad esempio), un bel momento proprio non è. E allora il Pride – corteo & carnevale – può servire a colorare di violetto, indaco, azzurro, verde, giallo, arancione e rosso (a proposito: il fucsia è più il violetto o è più l’indaco?), il grigiore di questi ultimi mesi e di questo mondo in generale non così evoluto come ce lo raccontiamo.
Rimangono un dilemma e una domanda, grandi come case, pesanti come macigni. Ma se il primo riguarda i presenzialisti di professione, il secondo affligge un po’ tutti quelli che al Pride sono sinceramente affezionati. Il dilemma, morettiano, è: mi si nota di più se vado o se non vado? Il problema è: che mi metto? Una volta sciolti e risolti questi atroci interrogativi, andiate o non andiate, siate orgogliosi ogni giorno e, possibilmente, ogni giorno felici.