Sulla strada longa di Girgenti, per citare il capolavoro di Modugno, non ci sono più “tre briganti e tre somari”, come nel testo reso celebre (anche) dalla voce di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Se il cantautore di Polignano, ammaliato da Lampedusa, avesse avuto la fortuna di viverci qualche anno in più, nelle Pelagie, avrebbe conosciuto più a fondo tre fra i più potenti e “mascariati” politici di Sicilia. E ci avrebbe scritto un brano – forse – per esaltarne vizi, virtù, inclinazioni e dannazioni.
Quando Modugno fu deputato e senatore della Repubblica, nelle file del Partito Radicale, Salvatore Cuffaro, detto Totò, di Raffadali, si affaccia al grande pubblico con la sua performance a Samarcanda, la trasmissione di Santoro (collegato col Maurizio Costanzo Show), per commemorare Libero Grassi. Ma soprattutto, è il 1991, comincia la sua esperienza all’Assemblea regionale. Un parlamentino popolato da consiglieri scafati – nell’Isola, viva l’autonomia, li chiamano deputati e li pagano come senatori – e giovani arrembanti. In quel governo durato pochissimo (manco a dirlo, per un episodio di corruzione), e retto dal democristiano Vincenzo Leanza, il catanese Raffaele Lombardo era già diventato assessore di un certo calibro: agli Enti locali. Mentre Renato Schifani, attuale governatore siciliano, si dimenava nella professione di avvocato: l’ex guardasigilli Filippo Mancuso, l’unico ministro sfiduciato direttamente dalle Camere, gli appiccicò addosso l’etichetta del “principe del foro del recupero crediti”. Se la porterà appresso fino al suo ingresso in politica e nel cuore di Berlusconi.
Sulla strada di Girgenti (o meglio: di Strasburgo), al termine di un’estate che per la Sicilia ha rappresentato un viaggio all’inferno senza ritorno (l’aeroporto di Catania, la bufera con le compagnie aeree, gli incendi quelli veri), e di stagioni presidenziali poco fortunate (Crocetta e Musumeci tagliati fuori dopo una legislatura), ci sono loro tre. Totò Cuffaro, Raffaele Lombardo e Renato Schifani – il bello, il brutto e il cattivo che da vent’anni muovono i fili della politica siciliana – potrebbero correre insieme per le prossime Europee. Piccolo refuso: “vorrebbero”. Altrimenti non si spiega il coro angelico e il battito di mani con cui la DC e gli Autonomisti, ovverosia i partiti dei due ex governatori, hanno salutato le parole dell’attuale presidente di Forza Italia. Il quale, nelle vesti di uomo-squadra, ha consegnato a Tajani, che di FI è segretario, la propria mission da qui al congresso di primavera: “Guidare la transizione da partito leaderistico a partito pluralistico”, ma soprattutto “racchiudere sotto lo stesso cielo tutti coloro i quali la pensano come noi, soprattutto per un appuntamento come quello delle elezioni Europee”.
E mentre Tajani dovrà arrabattarsi in qualche modo, per non cedere alla tentazione di imbarcare grillini e renziani delusi, in Sicilia Schifani ha vita facile. Perché in quell’enorme suk che è l’Assemblea regionale, il calcolo elettoralistico sfugge al rigore della logica. E Forza Italia, che si insinua perfettamente nelle lande dell’astensionismo, e continua a collezionare successi dalla stagione del 61-0 (frutto del miracolo di Gianfranco Micciché, già vicerè berlusconiano, che alle Politiche del 2001 vinse tutti i collegi uninominali), già lavora all’enorme contenitore che possa inglobare amici nuovi e di vecchia data. Dagli azzurri, quelli freschi e quelli stracotti, passando per i decani della politica, leader di due marchi storici che da queste parti fanno gola: la Democrazia Cristiana e il Movimento per l’Autonomia.
Cuffaro e Lombardo viaggiano sempre in coppia – al bar e sui giornali – anche se a stento si sopportano. Nell’ultimo periodo, però, il meccanismo di mutuo soccorso, indotto dal mascariamento subito (è il classico tentativo di delegittimazione, spesso sputacchiato, ad opera di taluni professionisti dell’antimafia), ha prodotto un affetto quasi solidale. Sfociato nell’incontro del 4 maggio scorso, quando Lombardo si presentò in sala, al Politeama di Palermo, per la proiezione di ‘1768’, il film che trae spunto dai giorni di detenzione di Cuffaro a Rebibbia dopo la condanna per favoreggiamento. La riabilitazione politica e personale di Totò s’è intrecciata col calvario di Lombardo, dimessosi nel 2012 da presidente della Regione per difendersi dall’accusa più infamante: concorso esterno in associazione mafiosa. Sono serviti dodici anni, e un processo ripetuto due volte, per attestare la sua innocenza da parte della Cassazione. Fino al febbraio scorso, come accade non di rado agli imputati di casa nostra, è stato messo alla gogna e azzannato con ferocia: “I pentiti che mi accusavano? Un pozzo d’ignoranza e di contraddizioni”.
Ma anche Schifani soffre della sindrome degli appestati, che appartiene agli altri due. E’ attualmente coinvolto in uno dei filoni dell’inchiesta Montante, su cui pende l’ombra della prescrizione. L’ex presidente del Senato, che ha vinto le elezioni pochi mesi fa, porta sulla propria pelle le cicatrici di alcune indagini per mafia sfociate in archiviazioni continue (Riina, durante un colloquio con la moglie e le figlie nel carcere di Opera lo definisce “una mente”). Ed è attualmente imputato per aver violato il segreto d’ufficio e messo al corrente l’imprenditore ed ex paladino della legalità Antonello Montante, condannato a 8 anni in appello per corruzione, sull’inchiesta che ha portato al suo arresto. Schifani, che ha scelto il rito immediato, si dice innocente. E, non bastasse, continua a reclamare un posto tra gli ideatori del carcere duro e del 41-bis, della lotta alla mafia e così via. Oltre che del “lodo” che voleva salvare Berlusconi dai processi mentre operava da premier. Qualche giorno fa, ispirato dallo stupro di Palermo, e con sorpresa del mondo garantista, ha richiesto l’allungamento dei termini della carcerazione preventiva. Cose che si dicono.
Questa è la storia di tre uomini che alla vigilia delle ultime Regionali siciliane hanno intrecciato i vizi e condiviso le imperfezioni. E hanno disposto che un pezzo del proprio destino politico appartenesse anche agli altri due. Da una parte c’è il “bello”, Totò Cuffaro, diventato autore sopraffino di libri straletti; dopo aver scontato a testa alta la pena del carcere – cinque anni a Rebibbia – è diventato strenuo difensore dei diritti dei detenuti, relatore di convegni e, nonostante gli schizzi di fango, non ha desistito dall’obiettivo primario: fare politica. E chissenefrega di Victor Hugo, secondo il quale “detenuti si rimane tutta la vita”. In questa eterna convalescenza Cuffaro ha sopportato l’astio, le rimostranze dell’antimafia chiodata, ed è volato in Burundi per assistere madri povere e bambini sfortunati, e costruire ospedali. Poi ha consolidato la propria, inesauribile fonte di consenso, rimettendo in piedi la Democrazia Cristiana (anche se il simbolo dello scudo, come stabilito da un giudice, rimane all’Udc) e ottenendo due assessori d’area. Il Tribunale di Sorveglianza di Palermo, all’inizio di quest’anno, ha cancellato l’interdizione dai pubblici uffici. Ultimo ostacolo per il ritorno in campo – quello vero – da candidato a qualcosa. Lui dice che quel tempo è archiviato, che non ci pensa nemmeno, che il futuro è dei giovani e delle donne.
Il “brutto” è invece Raffaele Lombardo. Nelle vesti del catanese imbruttito – ruvido e poco empatico: non tutti colgono il suo innato senso dell’ironia – ha costruito l’impero autonomista che ha retto l’onda d’urto della sua assenza (oggi un assessore al governo della Regione e quattro “deputati” in tutto). Lombardo è anche il più abile degli strateghi, come appare da un pezzo d’antiquariato del 2010, scritto da Carmelo Caruso per Live Sicilia: “Per Lombardo il corpo non è altro che messaggio, nel suo viso c’è la cartina geologica siciliana. Ogni ruga sul volto è un pericolo di smottamento, e lui un terremotato che ha già costruito altrove (…) Egli è un esempio di genetica politica, un embrione da laboratorio che muta forma continuamente”. L’ex governatore di Grammichele si adatta e riadatta alle situazioni: ha sposato la Lega con un patto federativo e ci ha divorziato poco prima delle Politiche; stava per chiudere con Meloni un accordo le Europee, poi è rispuntato Schifani col partito “inclusivo”. Cerca spazi ovunque ed è un fenomeno nel trovarli. Ci sa fare, anche se non le manda a dire.
La cosa peggiore è trovarselo contro, perché sai che ti condurrà (quasi sempre) alla sconfitta. Per dirla ancora con Caruso: “E’ facile cedere l’anima a Lombardo perché come dicono i consiglieri di paese in quota Mpa (bocche di verità e schedati in voti), con lui si può diventare qualcuno. Il metodo Lombardo attecchisce perché tira fuori il talento-l’intrallazzo politico e ricompensa”. Laddove non intravede il talento, e l’intrallazzo non lo riguarda, pone un ostacolo. E’ lui che impedì a Cuffaro, dopo la fine del suo governo e la sciagura dei cannoli, di veder realizzato il sogno dei termovalorizzatori. La realizzazione dei quattro impianti, per cui era stata celebrata una gara da un miliardo, venne revocata. E’ lui, con mille espedienti (sensati), che rallenta Schifani nell’impresa di costruirli.
Se c’è da trovare la quadra, però, ci si assetta tutti insieme. Con Cuffaro e, gioco forza, con Schifani. Il “cattivo” della situazione. Non è un riferimento alla persona né al temperamento. Piuttosto a certi spigoli del carattere e all’inconcludenza. Con una politica fondata sulla lavagnetta dei rancori – per l’arcirivale interno Micciché e non solo – s’è costruito il proprio impero minuscolo dentro Forza Italia; con un’accondiscendenza, un po’ rassegnata, ai patrioti di Fratelli d’Italia, ha consolidato il suo regno al governo. Se uno non gli piace, è fuori (valgono le eccezioni per meloniani e larussiani). Se non gli pesta i piedi, invece, può funzionare. La dimostrazione plastica arriva da Marcello Caruso, fino a qualche tempo fa commissario provinciale (manco regionale) di Italia Viva, e divenuto in pochi mesi, “ombra” e cerimoniere del presidente; e poi, capo di gabinetto e di partito. Forza Italia, questa volta. Per quale abilità particolare? Non si sognerebbe mai di contraddirlo.
A Schifani in questi mesi da governatore siciliano è mancato il colpo d’ala, l’intuizione, la riforma. Ha affrontato i temi alti – dal caro voli in giù – senza arrischiarsi nel labirinto dell’amministrazione. Ha vissuto in conflitto col parlamento dopo essersi dichiarato “parlamentarista convinto”; ha alzato muri con l’opposizione e fatto divampare le polemiche, dopo aver fallito con gli incendi. Ha gestito Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione, come Palazzo Giustiniani. Con quel profilo un po’ diplomatico un po’ incerto, di quelli che non lascia traccia. Tranne che per le liti (non banale quella col ministro Urso sull’aeroporto di Catania). E i soliti rancori. Ne ha per tutti, tranne che per l’ex vicepresidente della Regione, l’avvocato Gaetano Armao. Un tempo fidatissimo collaboratore (e assessore) di Lombardo. In pochi mesi è uscito da Forza Italia, ha abbracciato Calenda, s’è candidato contro di lui alla Regione, e alla fine è stato riaccolto con tutti gli onori del caso: consulente sulle questioni extraregionali per 60 mila euro l’anno, ma soprattutto presidente della nuova commissione tecnico specialistica che rilascia le autorizzazioni di carattere ambientale.
Oggi, e qui riprecipitiamo dalla storia all’attualità, Cuffaro, Lombardo e Schifani rappresentano il grande blocco dell’abitudine. Quelli cui i siciliani si rivolgono nell’incertezza di dover votare altri: tipo Salvini, mai dimenticato per le sue allusioni contro il Sud; o la Meloni, che in questa fase, forte della sua fama e di quella del suo partito, regna incontrastata anche nell’Isola (il turismo è roba sua, come in molte regioni). La Sicilia però – chiedete e chiunque potrà confermarvelo – non ha mai aspirato, nemmeno nelle urne, all’estremismo dei dogmi o dei comportamenti. Alla destra e tanto meno alla sinistra. Ha preferito i porti sicuri e la gente del popolo. Un “amico” al governo piuttosto che un presidente a palazzo.
Cuffaro, Lombardo e Schifani hanno scelto di diventare esponenti di un’associazione corporativa per affermare la politica dei valori – così dicono – e contro la gogna dei giudici. D’ispirazione garantista, ma dal fare deciso. Per cambiare tutto senza toccare nulla. Per riaffermare la bravura dei politici di professione. D’altronde sono sempre stati loro, e continueranno ad esserlo, i burattinai della Sicilia. Solo che è diventato un po’ troppo dispendioso farlo da soli: per questo hanno scelto di riunire le forze: Strasburgo, stiamo arrivando.