E’ lui o non è lui? Certo che è lui: beato lui. Anche quando non è più Lui. Silvio Berlusconi, gigante anomalo, dottore di amoralismo politico come nel Medioevo si poteva esserlo in teologia, l’imprenditore rampante che riusciva a vendere gli appartamenti ancora prima di averli costruiti, quello che non si era mai fatto spaventare da nessun affare, quello che ha sempre vissuto di avventure, azzardi, percorsi obliqui, il creatore di Forza Italia e del Pdl, ma anche il distruttore di Forza Italia e del Pdl, l’amanuense di se stesso, l’uomo indescrivibile, indefinibile, che ha fatto vorticosamente roteare la Seconda Repubblica e la follia di un paese intero. E’ lui o non è lui? Certo che è lui, l’obliquo simpaticone che s’è preso il suo capitolo di storia patria. Lui che una volta esaurito il carisma, seppellito con gli onori d’un funerale di stato nella solennità del Duomo di Milano “venga pure il diluvio”. C’è moltissimo della storia del Foglio in questo libro di Pietrangelo Buttafuoco, primo tra i foglianti, che ha scritto forse finalmente quella storia sulla quale scherzava Giuliano Ferrara, ai tempi del Cavaliere imperante, e che il Direttore avrebbe voluto intitolare così: “Il Cav.”. Col punto. E nient’altro. L’avventura del cummenda brianzolo assurto al rango di statista, una vicenda che già allora – parlandone da vivo – era una trama in attesa di rappresentazione. Tutto un film che nemmeno Paolo Sorrentino è riuscito a rendere. Ma Buttafuoco sì. Questo non è “Loro” ma è “Lui”. Anzi: “Beato lui” (Longanesi).
Come la scena in cui, in questo libro, il Berlusconi imprenditore degli anni Ottanta bussa al camerino di Veronica Lario, la sua futura seconda moglie, e vi scaraventa dentro cento rose bianche. Solo che accanto alla giovane attrice c’è il fidanzato di allora. Il grandissimo Enrico Maria Salerno ancora col costume di Mefistofele addosso, e che ritrovandosi davanti al Cavaliere porta istintivamente una mano alla fronte. “Sei già dotato di corna, bene”, gli dice Silvio sorridente. E l’altro: “Cosa vuole che le dica, dottore carissimo. Mi porto avanti…”. Altro che Sorrentino. E c’è tanto del Foglio in questo panegirico del più arcitaliano degli italiani, dicevamo. Perché la storia si apre e si chiude con Stefano Di Michele, il nostro amato collega e amico scomparso ormai sette anni fa. Lui che, comunista com’era, nella sua stanza in redazione, in Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c, si teneva la sagoma cartonata di Silvio Berlusconi accanto alla scrivania. Un’opera pop, com’era il Berlusconi in carne e ossa. Buttafuoco racconta, come fosse un sogno (ma è accaduto davvero) di quella volta che Berlusconi incontra in Parlamento questo giornalista delicato, rotondo, colto e molto di sinistra, cioè Di Michele, che allora lavorava ancora per l’Unità. E il Cavaliere non può fare a meno (lui che odiava qualunque radichetta sul volto) di accarezzargli la barba. “Ha proprio una bella barba, sa?”, gli dice Berlusconi, che era un seduttore e un venditore di simpatia sin da quando negli anni Ottanta accoglieva ad Arcore gli inserzionisti ai quali si dovevano vendere gli spazi pubblicitari.
A quei tempi il giovane Berlusconi si metteva a scommettere con Ennio Doris e Marcello Dell’Utri su chi di loro sarebbe stato più bravo a fare i complimenti. A conquistare. Dunque a vendere. Ma con un’unica regola vincolante: il complimento doveva essere fatto immediatamente, alla presentazione, in pochi secondi, e doveva essere sincero, cioè doveva essere fondato su una reale qualità della persona alla quale lo si rivolgeva. Berlusconi era imbattibile. Trovava in pochissimi secondi un pregio, una capacità, un dettaglio positivo, un punto di forza in ciascuno. Doris una volta mi raccontò che a uno di questi ritrovi, ad Arcore, c’era una signora proprio brutta, poverina. E Berlusconi, all’istante, le disse: “Ma che bella abbronzatura che ha”. E, caspita, era vero. La signora era brutta assai, ma aveva un magnifico colore della pelle. Un’altra volta, in queste cene con gli inserzionisti, c’era un uomo sulla sedia a rotelle, affetto da una grave malattia. Berlusconi gli strinse la mano, e poi gli fece questo complimento: “Ma che stretta vigorosa”. Ed era vero.
Infatti diventava simpatico a tutti. E vendeva, il Cavaliere. Prima vendeva pubblicità e simpatia. Poi vendeva politica, e simpatia. Un’infilzata di bugie piacevolmente chiamata ottimismo, derivata dalla sua natura di commerciante che subito lo destina al successo. Dal 1994, con la discesa in campo, il suo buonumore ha infuso elettricità alla folla degli italiani chiamati alla prova del moderno. Bello o brutto che fosse. E dunque eccola, finalmente raccontata questa avventura del berlusconismo, in questo libro eccentrico e scanzonato di Pietrangelo Buttafuoco, che non è una biografia e nemmeno un romanzo, ma un’impresa meta-letteraria, poema e opera musicale insieme, piena d’inediti e d’introspezione, di realtà e di fantasia più vera del vero a cominciare dal proemio che immagina Silvio all’approdo finale (e mai raggiunto) del soglio quirinalizio. Quel sogno coltivato negli ultimi anni dal Cavaliere come fosse una performance teatrale, o sportiva, forse credendoci o forse no. Chissà. I retroscena della cronaca politica non hanno mai retto la potenza irrefrenabile di quei suoi guizzi, beato lui, raccontati in questo libro. Nulla può fermare infatti Berlusconi sulla strada della suprema monelleria, dice Buttafuoco. La monelleria presidenziale, appunto.
“Ho in serbo una mossa fondamentale per il Quirinale…”, diceva Berlusconi ai suoi sodali. “Cosa presidente?”, gli chiedevano quelli, “ha avuto riscontri?”. E lui: “No, vado una settimana in beauty farm…”. Un dialogo vero, giura Buttafuoco, non una barzelletta. Mentre tuttavia, a quel tempo, impazzavano anche le barzellette vere su Silvio al Quirinale, e i meme esplodevano sui telefonini di tutti: le Corazziere in gonna corta, il Palazzo che fu dei Papi e dei re d’Italia trasformato nel palcoscenico del Crazy Horse o del Mulin Rouge… Il burlesque! E il Cav. che intanto faceva campagna elettorale per il suo Quirinale, al telefono. Sul serio. Un tempo era Papa Francesco che chiamava a sorpresa case famiglia, pretini, seminaristi e novelli sposi. Ora è Berlusconi che vuol farsi presidente a far squillare i cellulari di mezzo Parlamento, con una predilezione anche lui francescana per gli ultimi, i sofferenti, i futuri disoccupati. Insomma per i peones. I tanti onorevoli Scrovachicchi della Camera, il sottobosco anonimo del gruppo Misto che da sempre è la San Patrignano dei reietti e dei delusi alla ricerca di redenzione. Di un’altra possibilità. Quello telefonava, insomma, e succedevano anche cose strane. Dai risvolti inaspettati. Tipo: “Pronto, sono Silvio Berlusconi”. E l’altro, pensando a uno scherzo: “Ma va a cagare”.
E allora eccolo, Silvio Berlusconi, ottantacinque anni: in azione. Si siede in poltrona, o alla scrivania, inforca un paio di occhiali da presbite, posa lo sguardo su un foglio che contiene tutte le informazioni rilevanti sul parlamentare da chiamare (compresa la dichiarazione patrimoniale), e finalmente parte la telefonata. Con Nicola Acunzo, ex deputato del M5s, uno che s’era trovato in Parlamento per caso, andò all’incirca così. “Mi dicono che lei è attore di fiction”, si sente dire quello dal proprietario di Mediaset, Medusa film e Taodue produzioni. E già uno si deve immaginare la faccia di Acunzo. Alla fine la conversazione prende una piega talmente buona che il peone-attore non solo promette a Berlusconi il suo voto per il Quirinale, ma pure quello di un altro parlamentare amico suo. Ciak, si gira. Il telefono ti allunga la vita, come diceva una vecchia pubblicità della Sip. O ti sputtana per sempre. Ottantotto processi in circa ventisei anni. Una volta, sul finire degli anni Novanta, Silvio disse ai giornalisti: “Se vi dico cosa ho speso penso sveniate”. Quanto? “Circa 600 miliardi di lire”.
Ecco dunque l’allegra, cinica, ludica, folle e davvero inafferrabile vicenda (“Beato lui”) di una persona che è stata centomila persone: quello che regala soldi, quello che continuava a guadagnare tantissimo altro danaro pensandone una delle sue, quello che faceva divertire, quello che tentava di decidere, quello che traduceva all’impronta Tucidide ma anche Cicerone, quello che ti castigava se è necessario, quello che ti faceva ministro se proprio non poteva farne a meno, quello che ti corrompeva così non perdeva tempo, quello che a volte perdere tempo era guadagnare tempo, quello che ti trasformava in un mito della televisione commerciale, quello che ti faceva finire in galera, quello che riscriveva le alleanze internazionali, quello che fabbricava città dal nulla della Brianza, quello che aveva il vulcano finto ma perfettamente funzionante nel giardino di casa, quello che anche prima di morire era già morto chissà quante volte ma sempre – ogni tre giorni, beato lui – resuscitava, andando e venendo dall’Aldilà col suo proverbiale sorriso. “Tre giorni d’oltretomba non potranno mai usurare lo smalto di un signore su cui la politologia muta s’arrende”.
Al forum di Assago, nel 1998, al primo congresso di Forza Italia, che tutto sembrava tranne che un congresso, c’erano i coriandoli e le luci psichedeliche, il Cavaliere – beato lui – che calava dall’alto in elicottero, che cantava al karaoke, che assisteva agli effetti laser d’una festa catodica capace di cancellare il ricordo dei vecchi congressi del ’900, quelli del grigio politburo acquartierato alle spalle del segretario in doppiopetto. Era il primo evento di massa di quella cosa che alcuni già chiamavano impropriamente “partito” (Berlusconi non l’ha mai usata questa parola, “mi fa venire l’orticaria”) e che per Romano Prodi era invece “il nulla, il nulla, il nulla, il nulla”. Venticinque anni fa, nel frastuono del forum di Assago, qualcuno chiese al Cavaliere: “Chi è il numero due di Forza Italia?”. E lui: “Gianni Letta!”. “Ah, bene. Ma dov’è adesso Letta?”. “Non c’è. Anzi, non è nemmeno iscritto”. Ecco. Solo Buttafuoco con la sua levità, con una prosa che è metrica dunque già poesia, poteva restituire l’imprendibile Silvio Berlusconi alla sua dimensione non di persona, ma di personaggio, di maschera che ha fatto letteratura di sé stesso e persino di tutti i fatti della sua giornata e della sua vita. L’intreccio di un’esistenza che incurante della realtà ha concorso, beato lui, alla ben più travolgente verità: quella dello spettacolo. Che è alla fine anche l’ultimo capitolo di questo libro, che si conclude con il trasloco del Cavaliere, con l’abbandono di Palazzo Grazioli, che fu il Castello del suo potere (im)politico per vent’anni. Un trasloco che era un po’ una morte, l’inizio della fine.
Tutto è nel cortile di quel palazzo di via del Plebiscito in cui si accatastano gli oggetti appartenuti a Lui, beato lui. “Ecco i macchinisti. E poi i fuochisti, i frenatori, e gli scambisti, e i lampisti, e così gli affini, e i collaterali e gli uomini di fatica. Tutti sono intenti ad ammucchiare, ad ammonticchiare, ad affastellare e a stipare lettoni, divani, sedie e tavoli tondi su carri, motocarri e Apecar mentre una bionda, forte di calcagno, gambe lunghe – accavallate – calzando spietate scarpe Louboutin li controlla, vigila su di loro e dispone su tutto”. E allora Pietrangelo immagina di telefonare a Stefano, il nostro Di Michele: “Non sai che succede, Stefano”, gli dice. Smontano tutto. E’ finita. E Stefano: “Ci vuole un titolo”. Eccolo: “Ultimo tacco a Palazzo Grazioli”. Ancora una volta, beato lui.