L’assalto è cominciato. E’ bastato far girare le scatole alle opposizioni, non coinvolgendole nella redazione del “collegato” alla Finanziaria, che Schifani si ritrova con le spalle al muro. Senza una maggioranza che gli lasci mani libere per effettuare il rimpasto e riavviare l’azione amministrativa; e senza una minoranza che nei primi sette mesi di legislatura lo aveva supportato a mo’ di stampella, contribuendo all’approvazione in tempi record della Legge di Stabilità (poi impugnata da Palazzo Chigi) e a fargli dormire sonni relativamente tranquilli anche di fronte alla questione morale.

Dopo aver tergiversato a lungo e atteso i tempi biblici delle elezioni Amministrative – dove il suo partito ha sfigurato e la coalizione è uscita con le orecchie basse – il presidente della Regione si trova alle prese con un’aula ingestibile, che già ieri, nel segreto dell’urna, si è espressa votando un emendamento del Pd e facendo andare sotto il governo (sulla proroga dei commissari nelle ex province). Incidente di percorso o no lo diranno i prossimi giorni, quando a Sala d’Ercole proseguirà l’analisi del disegno di legge che intende riparare allo sfacelo dell’ultima manovra, quando a causa di un errore del governo, che sbagliò l’imputazione di Bilancio, furono congelati 800 milioni per iniziativa del ministro “amico” Raffaele Fitto. Ieri sono state approvate le norme sui Forestali (74 milioni per garantire gli aumenti), per stabilizzare gli ex Pip e far uscire gli Asu dal bacino dei precari (col pagamento di cinque annualità), poi si è bloccato tutto sull’emendamento pro Taormina.

Al netto di qualche inaugurazione, come quella dei nuovi treni veloci fra Palermo e l’aeroporto di Punta Raisi, la Regione siciliana rimane ferma. Insofferente e immobile. In aula, come denunciato qualche settimana fa dal presidente Gaetano Galvagno, non arrivano proposte di legge da analizzare. “Non c’è carne al fuoco”. Così ci si riduce a discutere di facezie, interpellanze e interrogazioni ampiamente superate. Il perché della stasi è riconducibile ai “nodi politici”, come li ha chiamati lo stesso Schifani, che non riguardano soltanto il ddl all’esame dei parlamentari, e già smembrato in due. Ma soprattutto la sua maggioranza. Il governatore è stato il primo a parlare di restyling della giunta perché, messo all’angolo da Fratelli d’Italia, avrebbe voluto farla pagare a Mimmo Turano per la sua riluttanza a sostenere il candidato di centrodestra a Trapani. Ma può davvero il governo della Regione restare vincolato a questioni locali che importano poco o nulla ai siciliani?

Così è, se vi pare. Schifani però, dopo aver ipotizzato un “tagliando” al termine dei ballottaggi, ha deciso di non decidere. Ha atteso che si calmassero le acque per sgusciare via dai problemi. Ma i problemi rimangono perché – per citare l’intervento di Antonello Cracolici ieri in aula – “il governatore non si fida di nessuno dei suoi assessori”. Però, avendo le mani legate, non è in grado di cambiarli. Rischia di compromettere degli equilibri già precari, che hanno paralizzato il rodaggio surreale di un governo inutile. Non c’è stato un passo avanti sui rifiuti, il cui costo di smaltimento (dopo la chiusura della discarica di Motta, per una  sentenza del Cga) è schizzato a 400 euro a tonnellata; non si muove nulla sulle concessioni balneari, che entro fine anno dovranno andare a bando, e sui trasporti marittimi per le isole minori, messi sempre più in crisi dai sequestri dell’autorità giudiziaria; inoltre, la sanità viene infangata da casi di corruzione e da esempi folgoranti di mala gestio (come all’ASP di Palermo); i precari attendono si concretizzi un percorso di stabilizzazione promesso da lustri; la questione morale, da Cannes a SeeSicily passando per i bandi ritirati in autotutela, rimane senza responsabili. Le emergenze non svaniscono, e di riforme manco a parlarne.

Eppure il dibattito politico verte sul rimpasto impossibile. Far fuori Mimmo Turano sembrava una sciocchezza, finché la Lega – col vicepresidente Sammartino in prima linea – non ha deciso di fare quadrato attorno al suo assessore. “Siamo tutti in discussione”. Fratelli d’Italia, che aveva usato la leva Trapani per chiedere la testa di Turano, ritiene intoccabile Francesco Scarpinato, difeso a spada tratta ai piani alti: da Messina a Lollobrigida, nessuno è disposto a rinunciarci. L’assessore ai Beni culturali è un altro di quelli che Schifani ha incluso nella sua black list dal momento del giuramento. Gliel’hanno “imposto” dall’alto e si è rivelato una catastrofe: Scarpinato è finito al centro dell’affare Cannes e, successivamente, ha pagato a caro prezzo gli accordi (all’insaputa del governatore) raggiunti con Cateno De Luca sulle agevolazioni da concedere al Comune di Taormina per l’organizzazione dei grandi eventi estivi. “Se qualcuno utilizzando le istituzioni pensa di ricattare questo governo – ha rimarcato ieri Schifani – noi andremo avanti. La forza del nostro Esecutivo è la serietà e la compostezza, che non è debolezza ma forza”.

Sarà anche forza, ma commissariare l’azione dei singoli assessori (è già accaduto a inizio legislatura con Di Mauro, reo di aver rallentato il rilascio delle autorizzazioni per gli impianti rinnovabili) richiede un impegno sovrumano. Dosare umori e rancori si sta rivelando difficoltoso. Ma per i motivi di cui sopra – l’intangibilità dei partiti che sostengono la maggioranza – qualsiasi scossa è derubricata ad avvertimento. E agli annunci non seguono mai le azioni. Per lo stesso motivo, pressappoco, sono rimasti in sella Marco Falcone e Giovanna Volo. Il primo, sfiduciato sulla Finanziaria (è stato nominato Armao per andare a trattare con Roma la questione dei fondi extraregionali congelati) e additato sulle Camere di Commercio, è rivale due volte: di governo e di partito. Ma in questa fase di profonda incertezza dentro Forza Italia, meglio soprassedere. Di motivi, invece, ce ne sarebbero in abbondanza per rimuovere l’assessore alla Salute: ma Schifani non lo fa perché significherebbe sconfessare se stesso e (ri)mettere in palio un bottino (di potere) che nei primi giorni della legislatura gli è costato la feroce separazione con Gianfranco Micciché.

E’ per tutto questo che il governatore ha le mani legate. Perché dopo aver armeggiato a lungo i suoi rancori, dovrebbe fare i conti con quelli altrui. Perché dopo aver mandato Caruso in avanscoperta sul caso Palermo, e aver ricevuto in cambio un’imbarazzante pernacchia, sarebbe costretto a esporsi in prima persona, a prendersi dei rischi, a pregiudicare i rapporti con l’aula e la sua stessa maggioranza. Visto com’è andata a Musumeci, sembra una via senza sbocco. Così l’unica soluzione a breve termine è temporeggiare. Galleggiare. Cercare di scontentare il meno possibile, a costo di tenere l’esecutivo blindato e l’azione di governo immobile. Tertium non datur. Ma fino a quando la Sicilia potrà permettersi uno scenario simile? Fino a quando Palazzo d’Orleans resterà immune dai morsi della fame, dal bisogno di salute, dalle prospettive di sviluppo di 5 milioni di persone?