Pochi giorni fa ad Agrigento, alcuni di coloro che avemmo una qualche parte o comunque partecipammo al congresso regionale della Democrazia cristiana, che si svolse proprio in quella città nel febbraio del 1983, ci siamo incontrati, per ricordare quell’evento e ribadirne l’importanza nella storia della Sicilia e del partito che allora aveva la maggioranza dei consensi ed era alla guida della Regione.
Sollecitati da Enzo Di Natali e dalla sua associazione Evangelium Vitae, Rino La Placa, Enrico La Loggia, Angelo La Russa, Calogero Mannino e chi scrive abbiamo cercato di mettere in risalto l’esito di quel congresso che segnò una cesura nella storia della formazione dei cattolici per ciò che riguardava il rapporto di alcuni suoi settori con la mafia. Esso si svolse nel momento in cui le accuse da parte della sinistra e di consistenti settori della stampa erano diventate sempre più violente, in particolare dopo gli assassinii di La Torre e di Dalla Chiesa. Quelle accuse non investivano soltanto la dimensione regionale del partito ma lo coinvolgevano per intero, creando problemi sempre più gravi alla segreteria nazionale e mettendone in discussione la stessa legittimazione politica e morale a svolgere il ruolo di forza di maggioranza e di guida delle istituzioni.
Era ormai sempre più urgente l’esigenza di compiere un gesto, di fare una scelta, di trovare una risposta per fare uscire il partito dall’angolo nel quale si trovava. Il congresso pertanto non aveva solo né prevalentemente il compito di eleggere un nuovo segretario e di comporre una nuova maggioranza, liquidando il problema della mafia con il solito documento di condanna. Occorrevano un preciso segnale di rottura e un passaggio imprescindibile che tuttavia non erano da tutti ritenuti necessari. Anzi, con il sostegno di De Mita, segretario nazionale, i maggiori esponenti del partito si muovevano verso una conclusione unitaria, non ritenendo necessario un forte segnale come premessa indispensabile per una sorta di rilegittimazione.
Lo ritennero, viceversa, Mannino e Sergio Mattarella, i quali, rifiutandosi di essere parte di una lista unica, fecero emergere l’inquietante presenza nella Dc di Vito Ciancimino e del suo gruppo. Si trattava di una realtà esigua, che non raggiungeva neppure il 4% delle forze in campo ma che, al di là del peso numerico, costituiva la prova più evidente dei collegamenti tra la mafia, settori della pubblica amministrazione, della politica e, naturalmente, della Democrazia cristiana.
Il personaggio era già stato individuato dalla Commissione parlamentare come terminale della mafia, come “l’espressione emblematica di un più vasto fenomeno che inquinò negli anni ’60 la vita politica e amministrativa siciliana per effetto delle interessate confluenze ed aggregazioni delle cosche mafiose”. Nella sentenza del processo Andreotti i magistrati avrebbero scritto che Ciancimino era “nelle mani di Totò Riina” e che aveva avuto un ruolo di rilievo nel cosiddetto sacco edilizio della città capoluogo.
Uno dei “pentiti” con un modesto ruolo negli organi del partito palermitano, a conferma del diretto rapporto di alcuni suoi settori con Ciancimino, aveva raccontato ai magistrati che, quando immaginò di allontanarsi da quel gruppo, Bernardo Provenzano gli intimò di rimanere al suo posto e di non creare nessun problema. Era pertanto quello il nodo da sciogliere, quello cioè della permanenza di Ciancimino all’interno del partito.
La scarsa rilevanza numerica non consentiva a quella corrente di essere rappresentata negli organi regionali, a causa dello sbarramento del 10%. Doveva pertanto far parte di un’altra lista o essere per così dire annegata, nascosta all’interno di una soluzione unitaria. Era proprio questa la strada che volevano seguire i maggiori esponenti del partito. Mannino e Mattarella, rifiutandosi, indussero tutti a compiere una scelta coraggiosa e rilevante.
Lo stesso pentito appena richiamato dirà, sempre ai magistrati, che la “goccia che fece traboccare il vaso fu proprio il congresso di Agrigento che determinò l’uccisione diciamo morale del gruppo di Ciancimino, in quanto fu completamente emarginato, poiché lo stesso era detentore di un pacchetto di tessere che, considerevole a livello provinciale [di Palermo] era insufficiente a livello regionale a determinare il quorum per potere ottenere dei rappresentanti del comitato regionale”.
Ad Agrigento si fece una scelta rilevante alla quale sarebbero dovute seguirne altre per consolidare un percorso e una direzione che non era più possibile abbandonare. Tuttavia, per una reale inversione di tendenza in tutte le realtà della Sicilia nella storia dei rapporti tra la mafia e la politica, era necessario che la decisione della Democrazia cristiana fosse riconosciuta, sostenuta e il partito “aiutato” a proseguire, ad andare fino in fondo. Non fu così. Anzi la maggiore forza di sinistra, il Partito comunista, in quella circostanza non mostrò alcun interesse per il risultato del congresso. Quel partito aveva scelto la “questione morale” come cifra essenziale della sua politica e non intendeva attenuare l’asprezza delle accuse. “Per anni, scrisse Leonardo Sciascia, [la Dc] ha dato alla mafia protezione, sicurezza e prosperità; oggi che vuole distaccarsene, come non mai è accusata di starci dentro. Qualcosa sta mutando, qualcosa è già mutata, con buona pace di coloro che ancora non vogliono crederci, che vorrebbero non fosse vero e non per complicità, ma per il gusto di continuare a parlarne e a inveire”.
Già allora non si volle tentare di costruire un fronte unitario di lotta alla mafia. Anzi negli anni a seguire essa divenne fonte di contrasti politici, e non solo politici, che indebolirono la reazione dello Stato quando esso decise di mettere in campo una lotta determinata, rompendo ogni forma di tepidezza e perfino di contiguità. Quegli scontri e quelle polemiche non risparmiarono neppure Falcone e Borsellino. Negli anni successivi la frattura tra i partiti, tra settori della società, tra magistrati divenne incomponibile e addirittura lacerante. Proprio in questi giorni ci troviamo ad assistere al bruttissimo remake di quel vecchio copione che, in certa misura, ripropone quello originale. Con i duri e puri da una parte – ex magistrati, movimenti e organi di stampa – e Falcone, questa volta Maria, contestata con astiosa caparbietà per mantenere rapporti con le istituzioni. Allora fu messa in scena una rappresentazione quasi luciferina, interpretata da attori che avevano anche un disegno politico da perseguire. Ora assistiamo ad una ammuffita, stomachevole farsa. Con quale risultato? Che per la prima volta dopo poco più di trent’anni, la memoria del tragico evento di Capaci diviene divisiva.
Per tornare al congresso di Agrigento, poco tempo dopo Ciancimino venne anche escluso dagli organi della Democrazia cristiana di Palermo e messo sotto accusa dalla magistratura. Le scelte successive probabilmente non furono tutte e ovunque coerenti con quelle del congresso. Ma anche sul piano politico i maggiori esponenti di quel partito, quelli che erano stati bersaglio delle accuse più insistenti per i collegamenti con la criminalità organizzata o che, comunque, rappresentavano un vecchio modo di gestire il potere, vennero privati del loro ruolo. La Dc di Palermo, che per anni aveva avuto in Salvo Lima l’esponente maggiore, fu commissariata con Sergio Mattarella. Quella di Catania, che si intestava a Nino Drago, fu affidata a Calogero Lo Giudice. Segretario regionale divenne Mannino, la presidenza della Regione fu affidata a Rino Nicolosi e Luca Orlando fu eletto sindaco di Palermo. Si compose un quadro quasi totalmente nuovo, che tuttavia non poté, come non poterono, del resto, tutte le maggiori forze politiche nazionali, reggere l’urto della storia e l’ostilità di alcuni settori dello Stato. Nella dimensione siciliana, insieme a tutto ciò, non si riuscì a far fronte all’attacco della mafia, che aveva raggiunto un eccezionale potere economico e una devastante forza militare con i quali immaginò di sfidare lo Stato attraverso le stragi.
La scelta compiuta ad Agrigento nel 1983 dal partito di maggioranza relativa del tempo, al di là degli esiti finali della sua storia e dell’intero sistema politico della cosiddetta prima Repubblica, dimostra che non è possibile evitare di fare i conti con la propria storia. Ogni analogia può contenere delle forzature. E tuttavia questo è un principio che vale sempre, che non può essere ignorato. Vale anche per la forza di maggioranza di oggi, che non può ritenere di sfuggire all’esigenza di guardare con coraggio alla propria storia, a tutta la propria storia, in particolare a quella parte di essa che deve essere riconosciuta e rimossa.
La forza, la quantità di consensi (al tempo del congresso la Dc aveva una forza ed un consenso maggiori di quello di chi governa oggi), non proteggono dalla questione morale, non lasciano margini per sfuggire al rischio della delegittimazione. La risposta a questa esigenza imprescindibile non può essere una prova muscolare, né la rivendicazione identitaria, di una identità non tutta limpida e tale perciò da abilitare, insieme al consenso ovviamente, al governo di un Paese democratico.