Governare il Partito democratico non è stato mai facile. A differenza di altri, rimane un partito, con accentuate complessità anche per la convivenza di posizioni diverse che, a distanza di anni, stentano a fondersi per dar vita ad una forza riformista di sinistra con una identità definita, seppure, come si dice, plurale. Tuttavia, rimane essenziale per rappresentare una parte non indifferente di elettori, per il contrasto alla destra e per la normale dialettica democratica.
Con buoni risultati, come pare almeno dai sondaggi, da pochi mesi lo sta guidando la nuova segretaria che, tra le tante questioni, deve affrontarne due, per me di particolare importanza.
A cominciare da quella posta dalle dimissioni di Carlo Cottarelli, che indica quanto sia complicato assumere una linea netta e radicale, senza creare problemi e sospetti, senza rendere difficile la permanenza al suo interno delle componenti più moderate, di quella liberal-democratica alla quale si è riferito l’economista per dar conto del proprio abbandono e ancor più di quella cattolica, in evidente sofferenza.
È sicuramente condivisibile la battaglia sui diritti civili sulla quale con determinazione si sta spendendo Schlein per interpretare un’esigenza di civiltà diffusa nel Paese e per mettere alle corde una destra retrograda che immagina di vivere in un mondo da tempo non più esistente e che tuttavia sta riemergendo in Italia, in Europa e in altri luoghi con una forza imprevista, determinando uno scontro tra sistemi liberali e totalitari o guidati da cosiddette “democrature”.
Sui diritti occorre magari chiarire taluni aspetti controversi e comunque accompagnarli a proposte chiare su questioni economiche e sociali, sulle diffuse ingiustizie, sul lavoro, sul sostegno alla povertà e sulle diseguaglianze anche territoriali. Sui diritti, sulla crescita, sulla rappresentanza dei ceti più svantaggiati, si deve costruire l’identità del partito, che intanto, ed è un risultato apprezzabile, recupera consensi a sinistra, dovendo tuttavia evitare di perderli su altri versanti e ancor più di mettere a repentaglio la sua stessa natura.
Altra fondamentale questione è quella della presenza nei territori, come ama dirsi, quella dei gruppi dirigenti locali, in molte realtà inesistenti l’una e gli altri. L’impatto positivo che Schlein ha finora avuto sull’opinione pubblica alla lunga non può compensare l’assenza, pressoché totale, del partito, la sua incapacità di essere sensore degli umori e dei bisogni della gente, di stare nei luoghi dove imparare una grammatica per riconnettersi con essa, dove individuare e formare la classe dirigente, mettendosi in condizione di competere con successo nelle prove elettorali. Schlein può essere molto brava, ma senza un partito strutturato, una presenza viva nella società, da sola, non potrà ottenere risultati duraturi. E anche se li ottenesse, una donna o un uomo soli al comando, come pare avvenga altrove, non risulterebbero compatibili con la natura e con la storia della sinistra e con quella più generale di un Paese democratico.
L’attenzione alle realtà territoriale deve esserci ovunque. Ancor più nel Mezzogiorno, nel quale, maggiore che altrove, è la tentazione dell’autoreferenzialità, della chiusura, della gestione dell’esistente, del consolidamento del potere personale o familiare, come è avvenuto in Campania, dove la nuova segretaria peraltro ha dato un preciso segnale di discontinuità, senza tener conto della forza di De Luca e del fatto che con lui il Partito democratico guida la Regione.
In Sicilia, ben lontani da questi risultati, non disconoscendo l’impegno di tanti dirigenti e militanti e non volendo attribuire la responsabilità di una condizione di evidente fragilità politica e organizzativa solo a chi ha guidato il partito in questi ultimi anni, che tuttavia una evidente responsabilità ha, in Sicilia Schlein una scossa dovrebbe darla. In una delle regioni più importanti, non può rimanere ibernato com’è ormai da tempo. A cominciare, com’è normale, dalla celebrazione dei congressi, da quelli dei circoli a quello regionale. Deve tornare a far politica, a confrontarsi al suo interno non più solo o prevalentemente su questioni di potere, deve riallacciare i rapporti con i gruppi sociali, con il volontariato, con la cultura e con queste realtà deve elaborare il suo progetto.
Alla vigilia di elezioni amministrative in 128 comuni con 4 capoluoghi, risulta difficile identificare la posizione, i programmi e le alleanze.
A Catania, la città più importante nella quale si vota, quel partito sconta una debolezza antica, che si è aggravata per l’espulsione di alcuni suoi dirigenti ad opera di chi ora è deputata europea di Forza Italia e che si era manifestata già quando i personaggi accettati da Renzi tornarono nella loro naturale collocazione di destra. Così, non solo per questi motivi, anche lì si è stati costretti a ricorrere ad un esponente della società civile per palazzo degli Elefanti.
A Trapani due candidati democratici con un partito nettamente spaccato si contendono la sindacatura.
Nelle realtà minori c’è di tutto. E tutto si è mosso sulla spinta di scelte, di logiche e di convenienze particolari, in assenza di una linea condivisa, realizzando, così, le alleanze più diverse e contraddittorie. Fra le quali risalta quella di Belpasso, dove lo stesso candidato a sindaco è sostenuto dalla destra e dal Partito democratico, in prima persona con il suo segretario regionale presente alla manifestazione elettorale di apertura con un bel manifesto ad immortalare l’evento.
C’è molta confusione nell’Isola dentro quel partito, e non solo nelle realtà richiamate, ma in molte altre, a cominciare da Messina, dove esso è pressoché scomparso, a Caltanissetta commissariato, ad Enna guidato da una figura storica che, malgrado il proprio prestigio, ha perduto per due volte le elezioni nel capoluogo, a Ragusa, provincia nella quale si identifica solo con il deputato regionale, l’ottimo Dipasquale. Schlein non può ignorare questo stato delle cose. Non possono ignorarlo i dirigenti siciliani capaci e disinteressati, a cominciare da Provenzano che deve evitare di appiattirsi su questa situazione per svolgere, con le sue doti indubbie, un ruolo nella costruzione di una forza rinnovata e vitale, in grado di competere elettoralmente e politicamente con la destra.
Rinunciando a questo processo, si rinuncia ad essere sinistra riformista, si indebolisce la sua capacità di concorrere, dall’opposizione, a dare una prospettiva, un senso, un orientamento all’Autonomia in evidente crisi, non si conta nelle scelte nazionali. Si perde la possibilità di offrire una rappresentanza a coloro che non credono più alla politica, che la percepiscono come estranea se non ostile, indisponibile ad ascoltare i loro problemi, a dar vita insieme a loro a un futuro meno disperante della condizione attuale.