Si erano giurati lealtà ed erano spergiuri seriali. Avevano ritenuto di modificare l’equilibrio politico del Paese, spezzando il bipolarismo ed erano improvvisatori senza progetto, né visione, né prospettiva.
Dovevano intercettare i voti dei moderati e dei benpensanti ed erano intemperanti giocatori d’azzardo.
Avevano deciso che uno si intestava la guida del nuovo partito e l’altro collaborava defilato ed erano due gigioni incapaci di rimanere lontani, anche per un giorno, dal palcoscenico del chiacchiericcio politico. Si erano impegnati a vestire i panni severi dei protagonisti della tradizione azionista e repubblicana e sono rimasti due esagitati, specialisti nel collocare trappole e con una gran dose di furbizia che è quella “virtù” buona a creare successi effimeri ma che viene facilmente scoperta.
Come era prevedibile, si dice così ed è proprio brutto, Calenda e Renzi, due fumantini scarsamente simpatici, hanno resistito insieme per alcuni mesi. Poi sono tornati ad essere quello che sono sempre stati, due acrobati di notevole agilità, leggeri per mancanza di cultura, di storia, disinvolti con scarso rispetto per sé stessi e indifferenti alla parola data. Hanno rotto infine con lo stile proprio di quei coniugi, che, terminato il rapporto, se le cantano senza pudore nel cortile di casa. Tutto ciò, carattere, inadattabilità a star fermi, a tenere alleanze, a mostrare sobrietà ed equilibrio, soldi, spiega solo in parte la rovinosa fine del Terzo polo.
Più di ogni altra cosa quel che ha contato sono state le basi fragili del progetto stesso costruito su un presupposto astratto, sulla presunta esistenza di un centro da occupare e dove accogliere milioni di elettori.
Per raggiungere questo luogo utopico, tanto immaginato quanto irreale, hanno messo su un impianto assolutamente inconsistente. Lo hanno confermato, del resto, le elezioni regionali di Lombardia, del Lazio e del Friuli. Lo avevano già detto quelle dell’autunno scorso in Sicilia. Il centro, al di là dei due personaggi che in questi giorni riempiono i talk show, non appartiene al mondo reale.
Resta un rimpianto del tempo nel quale c’era eccome e per decenni fu l’architrave della vita politica nazionale. C’era e chi scrive lì ha militato. Lo ricorda con rammarico ma senza lasciarsi prendere dall’assurdo tentativo di mettere indietro le lancette della storia o di aspettarsi perfino una resurrezione che la vita, anche quella politica, non prevede.
Il centro c’era al tempo della legge elettorale proporzionale, quando esistevano due formazioni alle estreme, per ragioni diverse non agibili a rappresentare un’alternativa al governo del Paese. Al centro abitava un grande partito popolare. Vi convergevano altre forze, che con esso – la Democrazia cristiana – collaboravano. Quel sistema è crollato insieme al contesto internazionale che aveva concorso a reggerlo. Da lì via via tutti i tentativi di ricostruirlo il centro, diversi piccoli centri che si sono rivelati sempre velleitari e, comunque, quando sono stati per qualche tempo in piedi, non hanno avuto rilevanza apprezzabile, non sono stati determinanti, non hanno tenuto il banco, non hanno dato le carte. Sono stati semmai ancillari ai grandi raggruppamenti della sinistra e principalmente della destra.
Negli ultimi anni sono scomparse perfino le sigle che un centro pretendevano di occupare. In Sicilia anche l’UDC che per alcuni anni ebbe una buona rappresentanza, sempre rimasto dentro l’alleanza con la destra, ha cessato di esistere, sciogliendosi in essa. La nuova Democrazia cristiana che vanta una qualche eredità da quella vera, non ha mai immaginato di stare al centro, equidistante tra l’alleanza composta da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia da un lato e Partito democratico e Movimento cinque stelle dall’altro. All’interno della destra il partito di Cuffaro gioca le proprie carte, poche o molte che siano.
Questo è il mondo reale che risulta ancor più evidente dopo l’ingloriosa fine del partito mai nato di Renzi e Calenda. Ai molti amici che ricordano con rimpianto una lontana esperienza nella Democrazia cristiana e che talora mi sollecitano a far parte di generosi, quanto vani tentativi di riportarla in vita, resta il ricordo di tempi finiti, la nostalgia di una storia della quale si è stati partecipi, sentimenti comprensibili ma che non danno senso ai tentativi di rimettere insieme i cocci di una storia da difendere senza illudersi di riproporla. Se si hanno valori di riferimento, cultura e idee da recuperare e aggiornare, in particolare all’interno del mondo cattolico che soffre il bipolarismo e rischia l’irrilevanza nella politica, risultando del resto quanto mai infertile, lo si faccia dove è possibile farla senza rincorrere chimere. Lo si faccia all’interno di uno dei due schieramenti di una Italia, piaccia o no, bipolare, ormai non solo a motivo della legge elettorale. Ognuno poi misurerà il grado di compatibilità di ciascuno di essi con quei valori e quelle idee. Il resto è sogno. O è pasticciato, improbabile, effimero esperimento come quello fatto saltare in aria dai due fuochisti Renzi e Calenda.