Quando nei primi anni ‘90 del secolo scorso le autorità della Scania e il governo danese cominciarono a discutere di un ponte sull’Øresund (in danese) o Öresund (in svedese) lo stretto che separa il Baltico dal Mare del Nord e divide i due paesi scandinavi, fu come abbattere un secolare feticcio incistato nello spirito dei popoli. La Danimarca, più ricca e dinamica, si riprendeva quella regione meridionale della Svezia un tempo prospera e fertile dominata dall’aristocrazia agraria (ancor oggi alimenta il partito dei contadini), che le era stata sottratta nel 1658 dalla soldataglia calata dal nord per soddisfare le brame imperiali del re Carlo X. Ancor oggi la bandiera della Scania, una croce gialla in campo rosso, richiama quella danese (croce bianca in campo rosso), mentre nel vessillo svedese la croce è gialla su sfondo blu. Ma anche chi preferiva lasciare queste anticaglie agli storici dell’università di Lund, da quasi cinque secoli cuore e testa del luteranesimo, aveva un vagone di argomenti per opporsi.
Una delle proposte più radicali era costruire dighe e creare terraferma per sostenere il ponte. L’idea originale prevedeva di collegare Helsingborg a Helsingør, le due città che evocano il principe Amleto e si guardano nel tratto di mare più breve tra le due sponde. Ma il comune danese si oppone per timore dell’eccesso di traffico che avrebbe turbato la pace dell’antico castello, esattamente quel che invece volevano gli svedesi alle prese con una gravissima crisi economica. Sorgono anche difficoltà tecniche perché lì il mare è profondo 40 metri e il fondo è instabile. Nasce così un progetto ben più ambizioso: collegare Copenaghen a Malmö nel tratto più ampio.
I Verdi ben radicati dall’una e dall’altra parte innalzano la bandiera dell’ambiente: un’opera gigantesca avrebbe creato effetti disastrosi nel mare e sulla terra con uno stravolgimento dell’intero panorama, già segnato dall’aeroporto internazionale di Kastrup in suolo danese dove sarebbe approdato il tunnel sottomarino con il quale comincia e si conclude l’attraversamento. I proprietari dei traghetti e i loro dipendenti scendono sul piede di guerra, si evoca un’ondata di disoccupazione e la perdita di un giro d’affari sicuro e ben radicato. Il sindacato e il partito socialdemocratico che governa tradizionalmente Malmö, ma non la regione saldamento in mano ai conservatori, è diviso tra chi pensa che il ponte sia la leva della ripresa e chi teme nuovi sfracelli.
I nazionalisti svedesi evocano l’arroganza e la cupidigia dei danesi i quali invece hanno paura di ondate migratorie favorite dalla più tollerante Svezia. Ci vuole tempo per trovare un accordo, la costruzione del consenso è complessa in ogni democrazia, anche nelle più ordinate. Dibattiti, polemiche, paginate sui giornali, assemblee con le comunità interessate, insomma si muovono tutte le sfumature della opinione pubblica, tintinnano tutti gli anelli di congiunzione tra società e politica. Poi nel 1995 si parte e cinque anni dopo, il primo luglio 2000, le regali forbici di Svezia e Danimarca tagliano il nastro del maggior ponte strallato (sospeso e tenuto da cavi ancorati a piloni) d’Europa, lungo 7,8 chilometri con una campata centrale di 490 metri, e un’isola artificiale di 4 chilometri costruita nel mezzo dello stretto. La ferrovia passa esattamente sotto il nastro d’asfalto che si collega al lungo tunnel sottomarino. Insomma è uno dei più grandi progetti infrastrutturali nella storia del Vecchio Continente.
Dopo oltre un ventennio quel ponte non ha devastato la natura e ha trasformato radicalmente l’ambiente sociale, economico, umano. Svedesi e danesi vanno e vengono per lavoro o per diporto. Il comune di Copenaghen con circa 700 mila abitanti è grande il doppio rispetto al municipio di Malmö e offre grandi opportunità di lavoro, studio, divertimento, la paga è migliore, la corona danese più forte, ma la vita costa cara a cominciare dalle case. Si è creato così un flusso di pendolari danesi che hanno acquistato abitazioni più grandi e a buon mercato in terra svedese. Ormai l’intreccio è così stretto, pur tra incomprensioni reciproche nutrite dai pregiudizi, che il prossimo passo sarà una metropolitana tra le due città sempre più simili a un’unica grande area metropolitana.
I partiti di estrema destra, forti in entrambi i paesi, evocano paure ancestrali, però tutti aspettano con ansia di poter passare in meno di mezz’ora dall’una all’altra parte. E i marittimi dei traghetti? Ha funzionato il welfare state, ma soprattutto si è creata una economia nuova basata sui servizi, sulle tecnologie, sui legami tra le università molto apprezzate per le materie scientifiche, sulla manifattura 3.0, e quella macro regione è diventata una delle più dinamiche nell’intera Unione europea. Chissà che non accada qualcosa di simile tra la Sicilia e il Continente?
Se davvero vedrà la luce, “e sottolineo se”, il colosso dello Stretto batterà due record, con una campata di oltre tre chilometri sarà il più lungo ponte sospeso finora costruito, ma anche quello che ha atteso più tempo prima che si decidesse di costruirlo. Sospeso, dunque, nello spazio e nel tempo, sospeso anche nel più ovvio dei doppi sensi. Il primo a parlarne fu Giuseppe Zanardelli nel 1876 perché non bisognava fare solo gli italiani, ma l’Italia stessa divisa anche fisicamente. “Sopra i flutti o sotto i flutti la Sicilia sia unita al Continente”, diceva il bresciano esponente di punta della Destra storica.
Benito Mussolini che non era tenero con la Sicilia prometteva nel 1942 che dopo la guerra avrebbe costruito un ponte: “È tempo che finisca questa storia dell’ isola: dopo la guerra, farò costruire un ponte”. Nel 1984, Claudio Signorile, ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, prometteva: “Si farà entro il 1994”. Un anno dopo Bettino Craxi, capo del governo, anticipava al 1989 l’avvio dei lavori da completare nel 1995: “Sarà un’ opera da primato mondiale”. Con il nuovo millennio cambia l’umore. Dice Nino Calarco, presidente della Società Stretto di Messina: “Se la mafia è in grado di costruire il Ponte sullo Stretto, benvenuta mafia”. Ma Silvio Berlusconi non s’arrende: “Si potrà andare in Italia dalla Sicilia anche di notte, e se uno ha un grande amore dall’ altra parte dello Stretto potrà andarci alle 4 del mattino senza aspettare i traghetti”.
I ponti sono stati inventati nell’antica Italia eppure l’odierna Italia è quella che meno li ama. Furono gli etruschi a insegnare come farli ai romani loro successori nella egemonia della penisola, intendiamo i ponti moderni in muratura e con campate ad arco. I greci con tutta la loro cultura e la loro matematica non erano allo stesso livello. Tanto meno attribuivano ai ponti un valore divino tanto da trasformare il magistrato incaricato di gestire la loro costruzione e poi vegliare sul loro uso, in un vero e proprio sacerdote, anzi nella figura più eminente del potere repubblicano e più potente nell’era del principato al punto che il pontefice massimo, da Augusto in poi, è sempre stato l’imperatore.
Una piccola digressione storica per accrescere l’incredula meraviglia che circonda la querelle sul ponte tra Scilla e Cariddi. Quante rive di fiumi e sponde di mari sono state unite nell’attesa? Limitiamoci al nuovo secolo, escludiamo i viadotti (come il nuovo San Giorgio di Genova) e soffermiamoci sulle grandi strutture che consentono di camminare oltre le acque. Tra i ponti sospesi con lunghe campate principali, il numero uno è quello dei Dardanelli a Gallipoli in Turchia, aperto nel 2022, con una campata di oltre due chilometri. Per il numero due dobbiamo andare in Giappone a Kobe con il ponte Akashi Kaykyo (lunghezza della campata un chilometro e 991 metri) in funzione dalla fine dello scorso millennio.
Troviamo poi una ventina di ponti cinesi tra i primi cinquanta al mondo; tutti costruiti negli ultimi vent’anni, uniscono sponde di grandi fiumi, isole alla terraferma, attraversano i grandi estuari come quello del Fiume di Perla che sfocia nei pressi di Hong Kong. Ma attenzione, la Turchia s’è data da fare (il terzo ponte sul Bosforo è stato aperto nel 2016), incalzata in Europa dalla Scandinavia, mentre la Romania sta completando il ponte sospeso sul Danubio con una campata principale di un chilometro e 120 metri. Sarà il secondo in Europa con il danese Storebæltsforbindelsen che unisce due isole, Selandia dove sorge Copenaghen, e Fionia.
E l’Italia cosa ha fatto nel frattempo? Per trovare infrastrutture che tengano testa bisogna andare sull’Adige nei pressi di Piacenza con il ponte strallato completato nel 2010 o nel golfo di Taranto, sul Mar Piccolo, con il Ponte Penna Pizzone, dedicato ad Aldo Moro nel 2008, ma risale al 1977. Nel frattempo l’ambientalismo militante ha prodotto il partito dei No che da sinistra si è spostato a destra surfando abilmente sull’onda populista. Le grandi opere sono state demonizzate e rifiutate, anche chi non sposa la decrescita felice parla di piccole opere tra le quali ovviamente non ci sono né autostrade, né trafori, tanto meno mega strutture che hanno bisogno di piloni più alti della torre Eiffel, per costruire i quali occorrono grandi aree e lavori di profondo assetto del territorio.
Ma è perfino troppo semplice buttarla sui Nimby, o sugli interessi costituiti che si difendono con tutti i mezzi, entrambi ci sono anche nella “verde” Scandinavia e si sono fatti sentire. Allora dov’è l’eccezione italiana? Non è facile rispondere, ma due ragioni emergono su tutte le altre. La prima è la debolezza della politica, una debolezza non solo nel fare, ma anche nel processo decisionale, a cominciare dalla costruzione del consenso che non significa cedere a ogni pulsione particolare, bensì convincere. La seconda riguarda la pubblica amministrazione. Inefficienza, burocrazia? Certo, però la domanda cruciale è chi si prende la responsabilità. Il crollo del ponte Morandi ha riaperto il dibattito, ma non l’ha risolto. Il modello Genova del quale si è tanto parlato è rimasto un’eccezione.
Ora Matteo Salvini dice che sarà la volta buona. Si presenta in tv, piazza davanti a Bruno Vespa un plastico e assicura tutti, anche se il decreto varato dal Consiglio dei ministri è stato approvato “salvo intese” e di intese ne servono davvero parecchie, politiche, economiche, industriali e legali. Secondo molti pareri, sembra complicato ripristinare il contratto originario per la costruzione col consorzio Eurolink (guidato dalla Webuild) che aveva vinto la gara annullata dal governo Monti. Se si dovesse indire una nuova gara, sarebbe impossibile avviare i lavori entro il 2024, ma soprattutto non si sa ancora chi sborserà i soldi per la costruzione.
Il decreto stanzia solo 50 milioni di euro per la Società dello Stretto (controllata dall’Anas) allo scopo di aggiornare la progettazione alle nuove normative ambientali e antisismiche. I soldi dovrebbe metterli lo Stato, ma potrebbe anche esserci una partecipazione diretta europea visto che il ponte è inserito nel “corridoio Berlino-Palermo”. E perché non coinvolgere investitori privati? Con il ponte l’alta velocità ferroviaria potrebbe arrivare in Sicilia, visto che i treni veloci non si possono spezzare per metterli sui traghetti. Eppure il potenziamento della ferrovia Palermo-Catania da 4 miliardi (220 km, per scendere da 3 a 2 ore) non prevede l’alta velocità.
Parole, parole, parole, ma quanto costano? I pedaggi non basteranno anche se si prevede un traffico di seimila veicoli all’ora e 200 treni al giorno. Salvini sostiene che ci vorranno sette miliardi di euro, “meno del reddito di cittadinanza”. Erano quasi 5 miliardi di euro nel 2001 saliti a 6,3 miliardi stimati dalla Corte dei conti nel 2011 fino agli 8,5 miliardi dell’anno seguente quando il governo Monti ha avviato un’analisi puntuale che alla fine aveva sconsigliato di proseguire su quel progetto perché insostenibile anche dal punto di vista finanziario, più una serie di anomalie come l’assenza di autorizzazioni ambientali e tecniche. I ministri successivi fino a Enrico Giovannini non hanno cambiato idea.
Gli ultimi pareri tecnici non negano i benefici del ponte. “Il sistema di collegamento stabile completerebbe un corridoio multimodale passeggeri e merci, aumentando l’utilità complessiva degli investimenti già fatti ed in corso di realizzazione sull’intero sistema, in primis il nuovo tunnel ferroviario del Brennero”, osserva il rapporto. L’opera “consentirebbe di realizzare una rete di collegamenti stradali e ferroviari interni al Mezzogiorno per aumentarne la connettività interregionale, incrementando il mercato interno alla macro regione con rilevanti potenzialità di sviluppo di questa parte del paese”. Ma…ci sono parecchi ma, a cominciare da quelli tecnici.
La prima obiezione riguarda la campata unica che sarebbe maggiore di circa il 50 per cento rispetto al ponte sospeso più lungo al mondo finora realizzato. Una bella sfida, non per questo bisogna ritirarsi sia chiaro. È vero che l’impatto visivo sarebbe notevole, però non ci sarebbe nessun effetto negativo sulla navigazione e il ponte avrebbe “una ridotta sensibilità sismica”, al contrario di quel che si dice nei caffè dall’una e dall’altra parte dello stretto. Esistono perplessità anche sull’ubicazione necessariamente lontana dalle due principali città. Tuttavia il costo finanziario resta il vero problema finora insormontato.
La parola fine pronunciata da Monti nel 2012 non è stata indolore. Le imprese vincitrici del bando hanno chiesto danni, indennizzi e risarcimenti. In particolare Eurolink per 700 milioni di euro, Parsons Transportation per 90 milioni e persino la Società dello Stretto vuole altri 320 milioni. La vicenda giudiziaria di questi ricorsi è intricatissima: la questione dei risarcimenti è finita addirittura alla Corte costituzionale che nel 2019 ha stabilito il perimetro degli indennizzi da corrispondere alle società, maggiorato del 10 per cento. Ora il decreto-legge resuscita i vecchi accordi stabilendo la rinuncia a ogni rivalsa attraverso atti aggiuntivi e la prosecuzione dei rapporti contrattuali “caducati”. Ma di caduco finora c’è stato solo il voler fare.