Oltre 50 mila giovani hanno lasciato la Sicilia nel 2021. Ma questo dramma sembra non importare a nessuno. Tanto meno alla politica e ai Brancaleoni di Sicilia, che si misurano con altri problemi: dall’aumento delle indennità dei parlamentari (con tutti in gruppi entrati in modalità ‘retromarcia’ per abrogare l’ultimo privilegio da 900 euro) alle tante vanità, inutili, che hanno segnato l’esperienza del governo Musumeci e riempiono le pagine dei giornali anche oggi, sotto la guida irreprensibile di Renato Schifani. Nessun accenno ai 364 mila “Under 39”, che hanno lasciato l’Isola negli ultimi sette anni (la metà del totale) per misurarsi con altre sfide, certamente più competitive.
Alla Regione si lavora su altri obiettivi. Alcuni, per la verità, abbastanza velleitari. E’ il caso dell’osservatorio sul trasporto aereo, ufficializzato dopo che Schifani, sotto Natale, andò in escandescenza per i prezzi aerei alle stelle. Come fosse una trovata dell’ultimo minuto da parte di compagnie un po’ birbanti che tramano contro l’unità nazionale. In realtà il caro voli è un problema che ci perseguita da anni, e a cui nessuno – ma proprio nessuno – è riuscito a trovare rimedio. Solo annunci, ma per quelli son buoni tutti. Schifani ha denunciato all’Antitrust il cartello fra Ita e Ryanair, tutto da dimostrare; e ha convinto un terzo vettore, Aeroitalia, a fare scalo nell’Isola per collegare Palermo, Trapani e Catania con le piazze italiane più importanti. Infine, s’è inventato questo osservatorio sul trasporto aereo che dovrebbe servire a “monitorare il traffico” e “contrastare l’aumento delle tariffe” (tipo Codacons?), ma anche a far “interagire gli aeroporti siciliani, costituendo una rete aeroportuale”.
Nel solco di ciò che ha detto il presidente: realizzare l’integrazione fra Palermo e Trapani, dopo quella già abbozzata – ma allo stato ancora evanescente – fra Catania e Comiso. Poco importa che il sindaco Lagalla non voglia “accollarsi” i debiti gestionali di Birgi (Schifani s’è già premurato di ricapitalizzare Airgest, la società che gestisce il “Vincenzo Florio”, per l’ennesima volta). Dovrà essere, comunque vada, integrazione. L’osservatorio, secondo l’assessore alle Infrastrutture Aricò, diventa cruciale: “Vogliamo inaugurare una strategia che aiuti a fare sistema, a migliorare i servizi e porsi nei confronti delle compagnie con una visione unitaria – ha spiegato a margine della prima affollatissima riunione -. Abbiamo avuto, inoltre, la possibilità di interloquire con i rappresentanti dei sei aeroporti siciliani, con l’Enac e con chi rappresenta i consumatori per mettere a fuoco in maniera più nitida i contorni della questione del caro-voli. L’Università di Palermo ci aiuterà ad assemblare e a interpretare i dati statistici sui biglietti aerei. Abbiamo l’obbligo di far viaggiare i venti milioni di passeggeri che transitano dai nostri scali a prezzi più ridotti”. Le ambizioni non mancano. Ciò che manca è una ricetta. Il rischio è che tutto si traduca in fuffa.
Così come rischiano di rimanere fuffa i piani megalomani di Musumeci e Armao, che avrebbero voluto insediare a Palermo il nuovo Centro direzionale della Regione. Un investimento da quasi mezzo miliardo, avviato sotto la supervisione dell’ex dirigente all’Energia Tuccio D’Urso, e falcidiato da numerosi ostacoli lungo il cammino. Su tutti, quelli legati al presunto conflitto d’interessi – archiviato di recente dal Consiglio di Stato – fra un componente della commissione aggiudicatrice e il raggruppamento vincitore del concorso di progettazione. Per quello che Musumeci aveva definito “il più importante investimento di edilizia pubblica realizzato in Italia negli ultimi decenni”, evidentemente non c’è sorte. Nel corso del dibattito notturno sulla Finanziaria, infatti, un emendamento proveniente dalla leghista Caronia (e sostenuto anche da pezzi del centrodestra) ha cancellato l’acquisto dell’area di via Ugo La Malfa, a Palermo, dove doveva sorgere l’edificio. I venti milioni sono stati dirottati altrove. Una beffa che in pochi hanno registrato. Fra questi il solito Aricò, già componente del vecchio governo: “Ne prendo atto. Il progetto dovrà ripartire dall’acquisizione di un nuovo terreno”. Campa cavallo.
L’ultima profezia di Musumeci che rischia di andare in fumo – i segnali ci sono tutti – è quella relativa ai termovalorizzatori. L’ex presidente avrebbe voluto realizzarne un paio: in contrada Pantano d’Arci, a Catania; e a Gela. Ma dopo gli annunci e la manifestazione d’interesse esitata lo scorso febbraio, che avrebbe generato un investimento da un miliardo a carico dei privati (in cambio della possibilità di gestire i siti per almeno trent’anni – il famoso project financing), la procedura s’è arenata. All’interno dell’attuale esecutivo non mancano le voci in dissenso: fra tutte, quella dell’assessore all’Energia, l’autonomista Roberto Di Mauro, che nel giorno del suo insediamento, alla prima intervista, aveva definito la proposta eccessivamente onerosa. Schifani, in campagna elettorale, aveva ribadito la linea: termovalorizzatori tutta la vita. Ma ha dovuto scontrarsi con le incertezze della location (avrebbe preferito spostarne uno a Palermo) e la farraginosità delle procedure. Pare, infatti, che per sbloccare l’iter sia necessario redigere un nuovo “piano rifiuti” (se ne occuperà un pool di docenti universitari e la tempistica è di almeno sei mesi). Nel precedente, che ha avuto un parto assai complicato fra Ministero dell’Ambiente e Cga, venivano indicate altre priorità di smaltimento.
L’ultima novità concerne il numero di inceneritori: da due a “un massimo di due”. Sostanzialmente: meglio uno. Ma i tempi per ripristinare i fili dell’appalto e arrivare a gara sono lunghissimi, mentre per la realizzazione dell’impianto ci vorranno almeno tre anni. Non da ultimo, bisognerà superare gli ostacoli rappresentanti dalle associazioni ambientaliste e dalle comunità locali: a Gela non sono per nulla propensi ad accogliere un inceneritore dopo aver pagato costi altissimi alle aree industriali. Una cosa è certa: con la monnezza in esubero non smetteremo mai di convivere.
L’ultimo orpello di Schifani & Co., almeno per il momento, è quello che riguarda il Ponte sullo Stretto. Su questo fronte le competenze della Regione sono un filo più risicate. Il palcoscenico è tutto (o quasi) di Matteo Salvini, neo ministro delle Infrastrutture. Dopo gli interventi a più riprese per sottolineare l’importanza del collegamento stabile tra Messina e Villa San Giovanni, è stata riattivata la società Stretto di Messina S.p.A. che oggi può contare su un assetto “nuovo e più snello” e su una nuova governance. Ma l’incontro promosso in questi giorni al Mit, senza la partecipazione delle due regioni interessate (Sicilia e Calabria), è servito a fare il punto su altre questioni. Al centro della riunione coi vertici di Anas, Rfi e Fs – si legge in una nota – c’è il progetto che, udite udite, “dovrà essere rivisto anche in relazione ai costi, acquisendo proiezioni aggiornate relativamente al traffico veicolare presunto e ai vantaggi in termini ambientali, grazie all’abbattimento di inquinamento da CO2”. Quello risalente al 2011, stroncato sul nascere da Monti e ritenuto il migliore dai governi di centrodestra, non va più bene. Bisogna adeguarlo ai tempi, modificarlo, lavorarci sopra in maniera accurata. L’apertura dei cantieri entro due anni, anche in questo caso, rischia di diventare una chimera, venduta a mo’ di propaganda. Non sarebbe la prima, non sarà certamente l’ultima.