La morte di Enzo Carra ha riproposto una delle immagini iconiche della lontana stagione di Mani pulite. Il portavoce di Arnaldo Forlani, segretario nazionale della Democrazia cristiana, nel marzo del 1993, fu portato in tribunale a Milano con gli schiavettoni ai polsi e la catena retta da due carabinieri ai lati. Quell’uomo, con gli occhi bassi, lo sguardo spento, il volto terreo, fu esposto in ceppi a tutta l’opinione pubblica come simbolo della politica vinta e umiliata e, al contempo, prova del potere della magistratura vindice delle sue malefatte, impegnata a perseguire reati e a compiere una gigantesca opera di moralizzazione. In filigrana, attraverso l’immagine di Carra, si doveva scorgere l’intera Democrazia cristiana, condotta sul banco degli imputati.
Le colpe di alcuni suoi esponenti coinvolgevano l’intero partito in un processo non previsto da nessun articolo del Codice di procedura penale e i singoli reati ne componevano uno enorme, metagiuridico, che investiva il ruolo, la storia e la legittimazione a governare il Paese della maggiore forza che, per cinquant’anni, ne era stata alla guida. Del resto quella forza, anche per l’ininterrotta permanenza al potere, non era stata in grado di rinnovare la propria classe dirigente, di individuare e isolare quanti al suo interno avevano messo in piedi un diffuso rapporto corruttivo con parte dell’economia nazionale. Il mutamento dell’assetto europeo e mondiale l’aveva poi privata del suo ruolo di cerniera del sistema politico. Mani pulite stava infliggendo i colpi finali ad un partito in crisi forse inarrestabile, con una determinazione a volte perfino feroce, ottenendo il plauso di gran parte dell’opinione pubblica, dei media e di alcuni settori che puntavano a regolare i conti con il partito di maggioranza e a sostituirlo nel suo ruolo.
L’immagine di Carra con gli schiavettoni incrinò probabilmente l’empatia tra i pubblici ministeri di Milano e la gente e indusse alcuni a prendere le distanze dai metodi e dalle finalità politiche che, in modo sempre più evidente, si sovrapponevano all’azione giudiziaria.
Mentre a Milano veniva svelato un diffuso e intollerabile sistema di corruzione, anche a Palermo la Procura indagava e faceva emergere tangenti e collusioni con la mafia. In entrambe le città era in atto un’opera che avrebbe dovuto “ripulire” il Paese e, come una tenaglia, schiacciare le forze responsabili.
Anche Mannino a Palermo fu condotto in tribunale con le catene ai polsi. Anche lui, molto più influente e potente di Carra, per volontà di alcuni esponenti della Procura, doveva subire la gogna, impedita dal presidente della sezione penale, che intimò ai carabinieri di togliergli le manette appena arrivato in aula da un corridoio coperto.
Con la cattura di Riina e di altri autori delle stragi, Caselli, a capo della Procura, aveva conseguito un risultato di grande rilievo. Doveva comunque proseguire per “bonificare” la Sicilia e nello stesso tempo per riscrivere la sua storia e quella d’Italia, provare che l’Isola e non solo era stata governata dalla mafia e che i partiti, la Democrazia cristiana in primo luogo, con essa era un tutt’uno, ne era, anzi, il braccio politico o, secondo una diversa versione, costituiva il cosiddetto “terzo livello”, che guidava la criminalità organizzata per i propri obiettivi e per consolidare il proprio potere. Le complicità e le collusioni che c’erano state e pure diffuse, dovevano assumere una dimensione totalizzante, investire i partiti nella loro interezza. Con il processo ad Andreotti e con l’incriminazione di Mannino, Caselli, una sorta di “Grande inquisitore”, grazie anche al sostegno di gran parte dei mezzi di comunicazione e della sinistra, di Violante in particolare, che con lui condivise professione, ideologia e disegno politico-giudiziario, estese l’indagine a decine di parlamentari regionali e nazionali della maggioranza del tempo. Alla fine, tranne due, condannati non per reati di mafia, tutti vennero prosciolti con il rammarico manifesto del Procuratore della Repubblica che lamentò di non essere stato in grado di portare in galera un solo esponente della politica, a fronte dei tanti mafiosi che era riuscito a incriminare e a far condannare. Né esito diverso vi fu a Milano. La corruzione esisteva come le collusioni, la repressione era necessaria, e insieme ad essa e ancor più sarebbero state indispensabili nuove regole nel rapporto tra i cittadini e la pubblica amministrazione, per realizzare un’efficace prevenzione ed impedire che si perpetuasse l’illegalità.
Di quella tragica temperie, che concorse a porre fine alla prima Repubblica, insieme a indubbi meriti, rimangono la delegittimazione della politica, il populismo, il giustizialismo, lo scontro permanente tra poteri dello Stato, i ripetuti tentativi di alcuni esponenti della vita pubblica di sottrarsi all’azione giudiziaria e il ruolo e il protagonismo, a volte debordanti, delle Procure.
Rimangono alcuni epigoni di quegli anni, che in magistratura e nel giornalismo hanno adottato la “vera storia d’Italia” e raccontano la parodia della storia, dicono di “complotti”, che, per loro natura indimostrabili e indifferenti alla realtà, mantengono il fascino di romanzi d’avventura. Quegli epigoni minimizzano i successi dello Stato, ingigantiscono il potere della mafia oltre la tragica misura che ha e come in un riflesso di immagine esaltano il loro ruolo di eroi scontrosi e solitari e ottengono successi e carriere politiche che ne prolungano il protagonismo.