Dall’insediamento del 14 ottobre sono trascorsi poco più di due mesi. Non il tempo necessario per tracciare un bilancio complessivo, ma per mettere in fila – quello sì – gli episodi salienti del primo governo Schifani. “Non accetterò mai accordi al ribasso e sarò aperto al dialogo con tutti”, erano state le premesse dell’ex presidente del Senato. Che nel giro di qualche giorno ha smesso di parlarsi con Gianfranco Miccichè: colpa, forse, delle bizze che il commissario di Forza Italia, lo stesso partito di Schifani, avrebbe fatto al momento della nomina del nuovo assessore alla Salute, che il governatore ha pescato dall’urna dei ‘tecnici’ evitando di consultarsi col vicerè berlusconiano. Il quale, da leader egocentrico e portatore di voti, è finito subito in panchina, anzi in tribuna, accusato di essere il guastatore di un governo nato monco.

I rapporti fra i due sono inesistenti. Miccichè si trova a elemosinare una deroga (o un accordo con gli irredentisti di De Luca) per mantenere un gruppo parlamentare ‘scippato’ dei suoi elementi migliori (da Tamajo in giù); Schifani non ha fatto nulla per intervenire e ricondurre l’astio nei canali del dibattito e del confronto interno. Al contrario, s’è creato un nemico di comodo e non perde occasione, per il tramite dei suoi scudieri valorosi, di chiederne la testa. Non che il dialogo con l’opposizione abbia fatto segnare passi avanti. Nonostante le presentazioni, infatti, Schifani ha bypassato il parlamento quando s’è recato a Roma per chiudere un accordo al ribasso con Giorgetti: nessuno, in aula, gliel’ha perdonato. “Alla prima curva ha sbandato”, è stato il commento di Antonello Cracolici. E in molti cominciano a tratteggiarlo come un Musumeci venuto un filino meglio.

Peccato che fra le prerogative del nuovo governatore, almeno in questo inizio, ci sia quella della continuità. Amministrativa, s’intende. Dalla bocca di Schifani non è uscita una sola parola di biasimo verso chi ha costretto il governo (attuale) a soccombere di fronte al giudizio di parifica della Corte dei Conti, che ha pensato bene di rivolgersi alla Consulta per denunciare le irregolarità del rendiconto 2020 (chiuso da Musumeci e Armao). Non bastasse l’eredità contabile dell’ex assessore all’Economia, Schifani ha scelto di accollarsi pure quella materiale, schierando nel suo staff due componenti del gabinetto del vecchio assessore.

Il presidente, quindi, ha deciso di non rompere col passato. Una scelta confermata pure dinnanzi ai mali della Foss, la fondazione orchestra sinfonica siciliana, la cui precarietà è stata segnalata giorni addietro da solito Cracolici. A fronte di un commissariamento che ha superato i due anni, e dei mugugni degli orchestrali, alla ricerca di una stabilità professionale oltre che economica, Schifani finora è rimasto fermo. Guai a scombinare i piani di Fratelli d’Italia, che con l’ex assessore Messina, al secolo “il cavaliere del Suca”, aveva ridotto la Sinfonica prima, l’assessorato poi, a una privativa.

Giammai rompere le uova nel paniere alla Meloni. Ma adesso, a distanza di due mesi, quel “non mi farò tirare la giacchetta”, diventa meno credibile. Al primo sussulto Schifani ha dovuto cedere il passo alle ingerenze romane, che hanno determinato la scelta di due assessori su quattro in quota FdI: Scarpinato (chissà perché) al Turismo, ed Elena Pagana, la moglie dell’uscente Ruggero Razza, al Territorio e Ambiente. Ex grillina, bocciata alle elezioni nel collegio di Enna, ha beneficiato del salvacondotto familiare. Schifani non li voleva e ha dovuto sorbirseli. Per evitare – ça va sans dire – di minare la stabilità della maggioranza dopo un mesetto scarso dal trionfo alle urne.

Avrebbe potuto prendere esempio dalla Meloni, il governatore siciliano, per tentare di chiudere il primo bilancio in tempo utile. Sono stati eletti entrambi il 25 settembre. Giorgia, dovendo amministrare due Camere e la diffidenza dell’Europa, ma mostrando testa dura e muscoli gonfi, è riuscita ad evitare l’esercizio provvisorio. Schifani no. Si è attorcigliato sul verdetto pendente della Corte dei Conti sul giudizio di parifica, e non è riuscito ad approvare, nell’ordine: a) la Finanziaria; b) l’esercizio provvisorio; c) il rendiconto 2021. “Non siamo attrezzati per i miracoli”, ha provato a giustificarsi ieri nella conferenza stampa di fine anno. Il governo regionale chiuso il 2022 approvando un assestamento di bilancio da 68 milioni e promettendo una manovra – con vista su gennaio, quando toccherà all’Ars smontarla e rimontarla – in cui i soldi dell’Europa verranno utilizzati per dare 50 euro d’aumento ai Forestali e promettere dieci mila nuovi posti di lavoro garantendo sgravi contributivi alle imprese. Prima, però, bisognerà recepire la norma ‘Salva Sicilia’ allegata alla Legge di Bilancio dello Stato, che in cambio della spalmatura del disavanzo miliardario in dieci anni, prevede una ricca contropartita in termini di riforme e controllo della spesa pubblica. Una serie di obblighi a cui bisogna ottemperare per evitare il baratro.

Quello siciliano, comunque, resta un governo basato sulle promesse. Altrui. A partire da quella del Ponte sullo Stretto, che ogni giorno Salvini alimenta con un sussulto di propaganda. “E’ dietro l’angolo”, ha detto Schifani riferendosi all’infrastruttura attesa da oltre cinquant’anni. O sul caro voli. La Regione sta recitando la sua parte, denunciando un cartello fra compagnie all’Antitrust: il risultato è che il prezzo per un’andata/ritorno dal continente verso Catania o Palermo, anche sotto Capodanno, continua a costare uno sproposito. E al netto dell’istruttoria aperta dall’autorità per la concorrenza, e delle dichiarazioni di rito sulla privatizzazione degli scali, non si è visto alcun risultato.

Ma quello di Schifani è anche il governo delle proroghe: l’ultima riguarda le migliaia di lavoratori Covid, fra tecnici e amministrativi, che vedranno prolungare di un paio di mesi il contratto in scadenza il 31 dicembre (a 18 ore settimanali). Piccoli segnali in un’epoca di profonda incertezza. La Sicilia, per i primi giorni del 2023, si ritroverà nel limbo della gestione provvisoria: la Regione, pertanto, non potrà erogare un centesimo in più delle spese obbligatorie per legge. Il sostegno a famiglie e imprenditori rimane scritto sulla sabbia. Anche questa è “continuità”.