Musumeci diceva di aver lasciato una Regione con le “carte in regola”, prendendo in prestito l’espressione coniata da Piersanti Mattarella. Ma, al momento del passaggio di consegne con Renato Schifani, dopo la vittoria elettorale, aveva omesso di fare accenno alla tragedia dei conti. Troppe volte, negli anni scorsi, il governo aveva palesato le proprie negligenze. Rinviando, sminuendo, utilizzando “artifici” contabili – come quello della spalmatura del disavanzo – che oggi la Corte dei Conti ha ritenuto irregolari. Dopo aver incassato la parifica del rendiconto 2019 per il rotto della cuffia (anche in quel caso vennero bocciati il conto economico e lo stato patrimoniale), la coppia Musumeci-Armao c’è ricascata.
A ereditare la situazione più disastrosa è un governatore incolpevole, che da “candidato di sintesi” – scelto la scorsa estate per mettere d’accordo una coalizione litigiosa – a pochi giorni dal Natale si ritrova col cerino in mano, senza un euro da spendere. Un agnello sacrificale fuori stagione. A Schifani non rimane altro che rimboccarsi le maniche e maledire tutte le volte in cui ha invocato la “continuità” rispetto al governo precedente. Dopo cinque esercizi provvisori consecutivi, a una sequela di riforme mancate, l’esecutivo di Musumeci colleziona post mortem un altro record poco invidiabile: ossia la sospensione del giudizio di parifica. La prima della storia. Mai s’erano viste tante irregolarità in un colpo solo. La sanità, i trasporti, le partecipate. I debiti fuori bilancio, il conto economico, lo stato patrimoniale. Al netto dei tecnicismi, conta la risposta dei magistrati.
E recita più o meno così: ‘noi ce ne laviamo le mani’ finché non sarà la Corte Costituzionale a fare chiarezza sulla posta maggiore. Sul dubbio più imponente. Che accadrà con gli 866 milioni di euro che la precedente governance, in ottemperanza a un decreto legislativo non convertito in un “accordo” entro i 90 giorni prestabiliti, decise di spalmare su dieci anni, anziché nei tre previsti dalla Legge? Chi s’è preso la briga di agire in questo modo, dovrebbe risponderne: ma quel qualcuno non era presente nell’aula magna della Facoltà di Giurisprudenza dove lo studente, ancora una volta, ha messo in fila una serie inaccettabile di asinerie. Per la Corte, va da sé.
Il capitolo Musumeci si chiude oggi, con questo finale inglorioso. Che racconta di un’arrampicata sugli specchi lunga cinque anni. Trascorsi tirando in ballo il governo Crocetta per le sciagure ereditate (tante, senz’altro); e lo Stato, cattivone, per aver rifilato alla Sicilia una sòla dietro l’altra, impedendo un naturale processo di sviluppo a una terra già martoriata dalla mala gestio di politica e burocrazia. Cinque anni passati a umiliare il ruolo del parlamento e dei partiti, relegati a spettatori di uno spettacolo triste; a tendere i muscoli inutilmente; a privilegiare lobby e portatori d’interesse; ad assistere inermi agli scandali consumati persino dentro le partecipate regionali (quello dell’Ast grida vendetta) o nel recinto della sanità.
Musumeci e Armao sono andati via esultando per la riduzione dell’indebitamento, per aver fatto passi da gigante nella valutazione del rating da parte di Standard&Poor’s, rivendicando di aver portato in Costituzione gli svantaggi derivanti dall’insularità. Presentando una brochure da 100 pagine per vantarsi del lavoro svolto. Avevano chiesto una riconferma per poter raccogliere i frutti di una lunga semina. Avrebbero meritato di esserci, in quell’aula, per trovare una giustificazione all’inadeguatezza, allo sprofondo dei conti. Per spiegare come avrebbero rimediato al congelamento della spesa per ulteriori 866 milioni che andranno trovati fra le pieghe del Bilancio, sperando nella mano divina dello Stato (cui l’assessore all’Economia, Marco Falcone, si appella per far venire meno la materia del contendere, legittimando l’operato della Regione con una norma interpretativa).
Costruire la prossima Finanziaria sarà un’operazione infida, quasi spericolata. Ma tutto avrà un prezzo. “Qui si bloccano le spese per centinaia di milioni di euro per investimenti e le assunzioni nei centri per l’impiego e nell’amministrazione regionale”, è il pronostico del capogruppo dei Cinque Stelle, Antonio De Luca, che chiede al governatore Schifani di ritirare le variazioni di Bilancio (valgono 370 milioni) – cosa che ha già fatto anche un altro De Luca, Cateno – e preparare l’esercizio provvisorio. Il segretario della Cgil, Alfio Mannino, ha già chiesto in ginocchio di evitare tagli per le categorie più deboli e i lavoratori. Piuttosto, ha invocato “il confronto col sindacato innanzitutto sulle riforme strutturali necessarie, cosa che il precedente governo non ha fatto e che ci ha condotto alla situazione attuale” e poi di giungere a un nuovo accordo con lo Stato “per maggiori trasferimenti sull’Iva e sulle imposte di ciò che viene prodotto in Sicilia”.
Il primo vertice si terrà la prossima settimana al Mef, dove Schifani – carte alla mano – tenterà di convincere il ministro Giorgetti che l’aiutino di Roma è l’ultima speranza per non chiudere baracca e burattini. Per evitare il default e ulteriori castronerie. Serve mezzo miliardo subito, e forse qualcosa in più per limitare i danni derivanti da questa impasse, che durerà (almeno) fino alla sentenza della Corte Costituzionale, cui è stata demandata la questione nel merito. Il disavanzo continuerà a pendere sulla testa di cinque milioni di siciliani, metà dei quali alle scorse elezioni hanno scelto di starsene a casa, avendo percepito che questa terra non ha più speranza e che i politici non meritano alcuna chance. Ma continuerà a pendere, soprattutto, sulla testa di chi governa: di Schifani, di Falcone (che era un componente di spicco della giunta precedente) e di tutti quelli che hanno accolto la sfida del governo, dando vita a un’alternativa per dimenticare cinque anni di disastri. Che di fronte alla Corte dei Conti, ieri, si sono rivelati in maniera plastica.