È nella pancia che si è costretti a guardare per picconare le ultime fantasiose ricostruzioni di pentiti di mafia e saltimbanchi. A certi parlatori, infatti, la voce pare venire dal ventre. Ed invece sono portavoce dell’altrui pensiero, chissà se per scelta o perché suggestionabili.
Il punto è che l’illusionismo fonico dei novelli ventriloqui pretende, ancora una volta, di diventare giudiziario. È il colpo di reni in vista dell’atto finale (il De profundis?), la sentenza della Cassazione, sulla trattativa Stato-mafia. Oppure l’incipit di una nuova stagione narrativo-giudiziaria che tanto piace a chi non si arrende all’evidenza che i processi si vincano con le prove.
Ed ecco avanzare figuranti che popolano la scena di ombre e sospetti il cui olezzo è pungente.
Farfugliano, dicono e non dicono, ammiccano nella speranza di sedurre. C’era riuscito Massimo Ciancimino, il primo grande ventriloquo che faceva dire al padre Vito, defunto ex sindaco mafioso di Palermo, ciò che serviva a lui ed era comodo per i pubblici ministeri che hanno imbastito l’inchiesta e il processo sulla Trattativa. Ora ci prova l’ex collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, uscito dal programma di protezione. Ha già un primato: è alla terza o quarta intervista “esclusiva” di fila. Prima ha solo parlato, poi con coraggio ha gettato la maschera che ne proteggeva il volto per il settimanale “Oggi”, infine si presenta in Tv nel salotto di Massimo Giletti. Ci mostra la banalità del male, raccontandoci che Totò Riina, negli anni Sessanta, aveva un “carattere dolce, docile, saggio”. Il sanguinario corleonese, lo sterminatore delle stragi del ’92 è “diventato feroce perché altri mafiosi intorno a lui erano feroci”. Belva in mezzo alle belve, quasi come se per Riina fosse stato un atto di difesa. Poi Mutolo la butta lì, c’è “un terzo livello che comanda e ha comandato sempre”, che regge i fili ed è pronto a fare un favore ai mafiosi eliminando l’ergastolo ostativo. “E’ una cosa vergognosa quella che vogliono fare”, tuona Mutolo.
Il mistero è servito. Gli storiografi ad oltranza dei patti occulti, rinfrancati da racconti posticci, possono riprendere carta e penna, e i magistrati aprire nuovi fascicoli. Sono coloro che hanno raccolto il testimone dai colleghi dopo la diaspora elettorale e gli inevitabili pensionamenti delle toghe che hanno dedicato una carriera ad inseguire e costruire teoremi.
L’apparizione televisiva di Mutolo ha un non so che di mistico. Si racconta, come in una catarsi per liberarsi dagli spettri della sua vita di killer di venti omicidi. L’intervista assume una dimensione rarefatta, suggellata dal gesto simbolico che segna il punto più alto della ritualità. Scorrono le immagini dell’abbraccio fra Gaspare Mutolo e Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il magistrato assassinato in via D’Amelio. È nel luogo dell’eccidio che i due si abbracciano. Il flashback della memoria riporta all’analogo gesto che Salvatore Borsellino si scambiò con Massimo Ciancimino, consacrandolo sull’altare dell’antimafia. Anni dopo della credibilità di Ciancimino jr e delle sue rilevazioni sulla Trattativa sarebbero rimaste le macerie, per buona pace di chi, come il pm Antonio Ingroia, lo aveva definito una “quasi icona dell’antimafia”. Il prudenziale “quasi” non ha evitato la magra figura rimediata per avere dato fiato al testimone nel corso di una lunga stagione giudiziaria. Il figlio di don Vito ci aveva preso gusto. A conclusione di ogni interrogatorio aggiungeva un dettaglio che ingolosiva gli accusatori. Era inevitabile riconvocarlo e Ciancimino jr non aveva alcuna fretta di smettere di giochicchiare con Ingroia e i colleghi della Procura palermitana.
La sua era una tecnica affinata nel tempo. Un modello che ha fatto scuola, come nel caso di Salvatore Baiardo – pure lui intervistato da Giletti – gelataio piemontese di Omegna che ospitò i fratelli Graviano, boss stragisti del rione Brancaccio. Su Baiardo in passato si è già indagato quando disse ai carabinieri di essere pronto a collaborare ma chiedeva soldi in cambio di informazioni bollate come “del tutto inattendibili”.
Era rispuntato qualche tempo fa, avvicinato dai giornalisti di Report, a cui aveva ripetuto le cose già dette sui rapporti fra Silvio Berlusconi e sui miliardi della mafia investiti grazie al Cavaliere. Roba su cui si indaga da decenni. Aggiunse la hollywoodiana rivelazione sulla vacanza dei Graviano in Sardegna vicino alla villa di Berlusconi e – udite, udite – la storia che ci siano in circolazione più copie dell’agenda rossa trafugata dalla borsa di Paolo Borsellino il giorno dell’attentato. Qualcuno l’ha fotocopiata come si faceva un tempo con le dispense universitarie per consegnarla a personaggi che continuano a ricattare lo Stato tre decenni dopo le stragi.
Vuoi che una copia non sia finita nelle mani di Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei padrini latitanti che magari ne ha fatto il suo salvacondotto personale? Baiardo non si lascia sfuggire l’occasione di dire la sua sul capomafia di Castelvetrano. Ne ha compreso l’attuale appeal mediatico, residuato bellico di una guerra che lo Stato ha vinto contro la mafia corleonese. Una vittoria che, però, va taciuta per alimentare il baraccone dell’antimafia. Ciò che Baiardo dice è così riassumibile: Messina Denaro è malato e pronto a consegnarsi in cambio di un “regalino”, e cioè un intervento governativo che abolisca l’ergastolo ostativo. In soldoni il “clamoroso arresto” dell’imprendibile capomafia trapanese servirebbe come arma di distrazione di massa per consentire a qualcuno “che ha l’ergastolo ostativo di uscire senza che ci sia clamore”.
Il Baiardo pensiero si chiude con una frase che suona come programmatica, un manifesto dell’intruppamento del gelataio: “Potrebbe succedere come una vecchia trattativa, come è stata fatta nel ’93… magari servirà ancora… come infatti non è che lo Stato lo stia prendendo… presumo che sia una resa sua”.
Musica per le orecchie di quei pm che quando sentono un collaboratore di giustizia o un testimone è come se si guardassero allo specchio. I pentiti finiscono per raccontare ciò che coloro che li interrogano vogliono sentir dire. Così è stato per Giovanni Brusca, il boia di San Giuseppe Jato che ha terminato di scontare la condanna e ora è un uomo libero. Non parlò subito Dell’Utri, del papello delle richieste dei boss per mettere fine alle stragi, dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino la cui assoluzione definitiva ha minato per sempre la ricostruzione sulla Trattativa di cui era indicato come l’iniziatore. Di tutto ciò Brusca si ricordò anni dopo l’inizio della sua collaborazione, fuori tempo massimo. Qualche giudice aveva sentito l’olezzo della mistificazione, tanto da mettere per iscritto che ci si trovava di fronte ad una “possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza”. Brusca poteva avere voluto compiacere chi lo interrogava. Un altro giudice fu ancora più tranciante sulle interpretazioni del pentito tanto da definirle “suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogatori, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami”.
Insomma, su certi argomenti Brusca è stato una sorta di ventriloquio dell’antimafia. Così come potrebbe esserlo stato il collaboratore Pietro Riggio, uno degli ultimi attrezzi di scena sul palcoscenico della Trattativa, paragonato a Tommaso Buscetta da Antonino Di Matteo per la possibilità di “fare il salto di qualità” nel racconto dei “rapporti osceni fra il potere e Cosa nostra” e celebrato da Antonio Ingroia come il “pentito di Stato”, la manna dal cielo per ricostruire la stagione delle stragi. Ha raccontato che i servizi segreti, italiani e libici, parteciparono all’eccidio di Capaci, facendo credere allo stesso Brusca che fosse stato lui a schiacciare il telecomando. La sua attendibilità ha cominciato da subito a scricchiolare, ma bisognava andare avanti per capire fin dove potesse arrivare.
L’indimostrabilità che proteggeva il suo racconto si è schiantata contro un banale numero di targa, quello di una macchina sulla quale, a suo dire, avrebbero viaggiato gli uomini del mistero ma che in realtà apparteneva a un trattore. Il verosimile allora è diventato goffo.
Meglio disancorarsi dalla realtà e addentrarsi nella nebbia dei ricordi che a distanza di decenni nessuno può confermare né smentire, come quelli sull’interrogatorio che Mutolo fece nel luglio 1992 in gran segreto, a Roma, con Paolo Borsellino. Il magistrato ricevette una telefonata e dovette precipitarsi dal ministro dell’interno Nicola Mancino. Già, lo stesso Mancino tirato con forza dalla Procura di Palermo dentro il processo sulla Trattativa con l’accusa di avere mentito. I pm chiesero la sua condanna a sei anni, salvo poi non appellare l’assoluzione decisa dai giudici di primo grado che scagionarono Mancino.
Mutolo fa uno sforzo di memoria. La mente va a quel giorno di trent’anni fa. Borsellino tornò dall’incontro ed era infuriato. Aggiunge un elemento da sceneggiatura cinematografica. Per calmarsi Borsellino dovette “fumarsi due sigarette insieme”. Poi fece una confidenza al pentito che gli stava seduto di fronte, come se Borsellino e Mutolo non fossero un magistrato scrupoloso e un collaboratore di giustizia, ma due vecchi amici al bar: “Mi disse di avere incontrato, fuori dalla stanza del ministro, Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde) e l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Gli disse: ‘So che è con Mutolo, me lo saluti’”.
Come si fa a smentire qualcuno che fa parlare i morti? Ci si può solo fidare della sua buona fede che va però soppesata di fronte a un killer di venti e passa omicidi pur se ha dato prova di avere cambiato vita. Un’apertura di creduto va concessa a tutti, figuriamoci a un personaggio della statura e dell’autorevolezza di Pino Arlacchi, già deputato e senatore Pd, estensore del progetto esecutivo della Dia, la Direzione investigativa antimafia, vicedirettore generale dell’Onu, amico e collaboratore di Falcone, di cui era amico. Nel suo ultimo libro racconta della confidenza ricevuta dal magistrato. Falcone era andato da Borsellino. C’era “scompiglio”, si stava “preparando qualcosa di grosso” come quando, dieci anni prima, la mafia aveva ucciso il segretario del Pci siciliano Pio La Torre e il presidente della Regione Piersanti Mattarella. “Stavolta è più difficile perché non hanno le coperture di allora. La Cia si disinteressa di loro, la Nato è quasi morta, gli è rimasto Andreotti, che non è poco, ma non è abbastanza”, confidò Falcone ad Arlacchi. Sono parole che destabilizzano visto che Falcone mai fece cenno alcuno, né pubblicamente né in atti giudiziari, di un fatto così grave che coinvolgesse gli americani con cui c’era stata intesa e collaborazione totale.
Il segreto del successo è raccontare circostanze che non possono essere verificate. A volte, però, si inciampa su un ostacolo. Prendete l’ex brigadiere Walter Giustini, un tempo in servizio a Palermo e oggi in pensione, secondo cui la strage di Capaci poteva essere evitata. Come? Se avessero dato retta a Giustini avrebbero arrestato Totò Riina prima dell’attentato di Capaci. Un suo confidente, Alberto Lo Cicero, lo aveva messo sulla strada giusta. Si sarebbe scoperto pure chi avrebbe agito nell’ombra, supportando i mafiosi o addirittura servendosi di loro. E cioè Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale e poi cofondatore dell’organizzazione di destra Ordine nuovo. Secondo il brigadiere, Delle Chiaie si recò “un paio di volte a Capaci” prima della strage. Di tutto ciò non c’è traccia alcuna negli atti ufficiali, compresi i verbali di Lo Cicero resi davanti all’autorità giudiziaria e in presenza dello stesso Giustini. Nulla, né di Delle Chiaie, né del possibile arresto di Riina.
Ed eccoci al punto di partenza, all’illusionismo fonico dei ventriloqui che diventa illusionismo giudiziario e torna utile, oggi più che mai, per il disperato tentativo dei magistrati della Trattativa, all’ultima spiaggia in Cassazione. Come diceva Platone nel Sofista, non hanno bisogno di altri che li confutino perché in fin dei conti portano dentro, nel loro ventre, il nemico che li sconfiggerà.
(un articolo scritto per Il Foglio)