Poche ma sentite domande per il presidente Schifani. Qual era la “stringente ragione” per cui bisognava assolutamente assegnare un assessorato a Ruggero Razza, ex imperatore della Sanità ed eminenza grigia di Nello Musumeci? Subito dopo il risultato elettorale del 26 settembre, Mario Barresi ha scritto su La Sicilia che il vecchio e il nuovo Governatore avevano stretto a Catania un patto di ferro: Razza tornerà comunque al governo della Regione. Ad ogni costo. A tutti i costi. E difatti, nella notte dei lunghi coltelli, al diktat col quale Francesco Lollobrigida, il nobile cognato, ha imposto la nomina in giunta del non eletto Francesco Scarpinato, si è unito l’ultimatum, altrettanto arrogante, del ministro Musumeci, divenuto da pochi giorni Pompiere d’Italia. Chiedeva al nuovo presidente della Regione il rispetto dei patti. Senza se e senza ma. Categoricamente. Pena addirittura – addirittura, sottolineiamolo – il distacco dei Fratelli d’Italia dalla maggioranza. Schifani, con la corda al collo, non ha avuto scelta: o bere o affogare. Ma chiediamoci: quale intrigo sotterraneo nasconde questa malinconica vicenda? Qual era l’inconfessabile retroscena che ha costretto Musumeci a uscire allo scoperto con tanta spocchia e ha spinto all’un tempo Schifani sull’orlo delle dimissioni? Quale peso aveva – e ha tuttora – Razza nella storia e nel cuore di Nello Musumeci? Se nel dizionario della politica esiste ancora la parola trasparenza, credo che i siciliani abbiano il sacrosanto diritto di conoscere la verità.
Una domanda anche a Razza. L’uomo che doveva a tutti i costi entrare in giunta era proprio lui. L’indicazione di Musumeci a Schifani – un consiglio che non si poteva rifiutare – riguardava soltanto lui: o Razza o morte. Né la moglie né altri prestanome. Ma all’improvviso dentro la Confraternita delle faccette nere – che comprende sia gli ex di Diventerà Bellissima, sia i puri e duri della Meloni – avviene una rottura imprevista. E contro Razza si alza un muro invalicabile. I ribelli gli concedono a denti stretti – “Credere, ubbidire, combattere” – un lasciapassare per la moglie, Elena Pagana, una multicasacca proveniente da mondo grillino che, alle ultime regionali, è riuscita a raccattare nel collegio di Enna non più di 1690 voti di preferenza, molto al di sotto della quota necessaria per rientrare a Sala d’Ercole. “Datele quantomeno l’assessorato ai Beni Culturali”, insistono i portavoce del padrino. Ma i rivoltosi tagliano corto: “O il Territorio o niente”. E così Razza è rimasto fuori mentre la moglie è andata lì, nell’assessorato dove ci sono altri pompieri e altra protezione civile: l’aspetta un futuro in linea con Musumeci, pompiere d’Italia. Ma andiamo alla domanda: dove dobbiamo bussare, caro Razza, per avere un briciolo di verità? Alla porta di Schifani o alla porta della Pagana? E chi avuto il coraggio – o la spudoratezza – di opporsi all’ex imperatore, all’ex Re Ruggero della Sanità?
Una domanda a Giorgia Meloni. Chi scrive, con un atto di fede, crede che la onnipotente leader di Fratelli d’Italia venga informata su ogni mossa del suo nobile Cognato, Francesco Lollobrigida, e anche del suo onorevole colonnello Nello Musumeci. Se così non fosse dovrebbe quantomeno spiegare, non solo agli elettori siciliani, come mai gli autorevoli ministri del suo governo – il Governo del Merito, tutto scritto con le maiuscole – ha fatto fuoco e fiamme per costruire alla Regione Siciliana non una giunta dei competenti, ma una giunta dei prestanome. O dei caporali. O dei campieri. O dei trombati. Qui il merito è diventato un bene che può passare di mano tranquillamente tra marito e moglie, amore passami l’olio. O tra un Balilla e un Avanguardista, che si passano la mano per mantenere al Turismo gli stessi apparati, le stesse clientele, le stesse lobby. Altro che legge e ordine. Siamo ai giochi proibiti tra padrini e compari.