La Regione ha appena esitato un concorso per il ricambio generazionale, assumendo cento profili – tra cui ventiquattro funzionari tecnici – per dare manforte ai rami dell’Amministrazione stressati dalla carenza di personale. Peccato che non bastino. Per drenare le risorse del Pnrr e completare i progetti, infatti, ne servirebbero 400 solo al Dipartimento tecnico. Che pertanto ha previsto di richiamare in servizio, anche se occasionalmente, i pensionati. Più che degli sconosciuti, per parafrasare il titolo di un libro di Salvo Licata, “il mondo è dei pensionati”.

E’ così che gira (almeno) la Sicilia: Renato Schifani, dall’alto delle sue 72 primavere, si appresta ad assumere la guida di un governo che si regge sui soliti noti: da Totò Cuffaro, governatore dal 2001 al 2008, a Raffaele Lombardo (71 anni), rimasto ai vertici dell’esecutivo fino al 2012, quando fu costretto a dimettersi a causa di un’inchiesta giudiziaria. C’è anche Gianfranco Micciché, a 68 anni, deve decidere se restare a Palermo o accettare la promozione in Senato. Le facce sono le stesse di quindici anni fa.

Ma l’età media dei dipendenti, ancor prima che dei politici, rischia di condizionare il futuro di questa terra. Prima del concorso sul ricambio generazionale, alla Regione non se ne faceva uno da trent’anni. Il gap, rispetto al fabbisogno di competenze, è impossibile da colmare, almeno nell’immediato. Ecco che il Dipartimento Tecnico e quello ai Beni culturali, con due bandi distinti, hanno deciso di creare un albo di pensionati da cui attingere per portare avanti l’iter amministrativo dei progetti finanziati da canali extraregionali, e ai quali, in una seconda fase, sarà affidata anche la direzione dei lavori. La stessa cosa che accadde in epoca Covid coi medici in quiescenza, arruolati per far fronte ai vuoti d’organico nei reparti.

E’ questa la più grande emergenza siciliana. La Regione si ritrova con una classe dirigente vecchia e poco motivata, oltre che inadeguata ai tempi (i cosiddetti burosauri), senza che riesca a porvi rimedio. Anche per i noti problemi di bilancio che, stante gli accordi di finanza pubblica con lo Stato, non consentono di sbloccare assunzioni a tutto spiano. Così i giovani rimangono fuori, e all’interno degli uffici prevale la solita inerzia. Improduttiva. I pensionati che tornano ai posti di comando verranno pagati con le risorse delle opere finanziate (non superiori al 2% del budget complessivo). E si metteranno in gioco per impedire che i soldi stanziati nell’ambito del Recovery Fund (con la scadenza improrogabile del 2026) vadano persi. Una responsabilità importante e delicata.

Ma l’amministrazione è lo specchio di chi ci governa. Basta fare un giro fra gli eletti all’Assemblea regionale per capire che le facce, più o meno, sono sempre le stesse. Prendete Renato Schifani. Mentre l’Italia affida le chiavi del governo – se Mattarella vorrà – a Giorgia Meloni, una donna di 45 anni, l’Isola dovrà accontentarsi dell’ex presidente del Senato (eletto, comunque, a furor di popolo). E’ stato lui stesso ad ammettere che diventare governatore della Sicilia non rientrava tra i suoi piani. Si tratta di un pensionato della politica chiamato in servizio per mediare tra i partiti del centrodestra in lite perenne. Il suo approccio, in effetti, sembra aver stemperato i toni della polemica. Ma al presidente della Regione non verrà richiesto un semplice ruolo di mediazione, né di rappresentanza; bensì un impegno costante – su tutti i fronti, compreso quello amministrativo – a cui Schifani non è abituato. E’ un uomo di Stato, questo sì. Ma governare Palazzo Madama non è come governare la Sicilia, coi suoi carrozzoni immondi e coi suoi problemi atavici Una terra in cerca di risposte e di rilancio.

Ci hanno provato in passato Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo. Nonostante i guai giudiziari che l’hanno tediato dal 2008 in poi, compresa una condanna per favoreggiamento alla mafia, l’ex governatore di Raffadali ha resistito all’incubo di Rebibbia e, dopo qualche anno d’esilio in Burundi, è tornato sulla scena politica e ha rimodellato la DC, eleggendo tre consiglieri comunali a Palermo e cinque deputati all’Ars. Un’impresa per pochi. Gli restano sette anni d’interdizione, poi, addirittura, potrebbe ricandidarsi. Cuffaro, che di anni ne ha 64, è ancora in tempo. Lombardo, uscito da un calvario giudiziario decennale (anche se la Procura ha già deciso di presentare ricorso in Cassazione), s’è rituffato anima e corpo nel suo progetto autonomista. E ha portato a casa un risultato notevole: cinque parlamentari eletti (diventati quattro per il sorpasso subito a Messina dalla lista di De Luca) e un posto di rilievo nel prossimo governo. Potendo contare su ottimi rapporti personali con Renato Schifani, sarà uno dei saggi più ascoltati.

Alle loro spalle resiste Gianfranco Micciché, l’unico in grado di garantire a Forza Italia percentuali in doppia cifra. La sua rinuncia alla presidenza dell’Ars gli garantirà un’ottima buonuscita: l’assessorato alla Sanità (per il suo partito) e probabilmente il ruolo di capogruppo al Senato, sempre che il vicerè berlusconiano si convinca ad accettare il ruolo da chioccia nella Capitale. All’Ars, inoltre, è arrivato alla settima legislatura Mimmo Turano. Mentre il dem Cracolici è a quota sei. Prima di determinare l’età media dell’Assemblea, va fatto notare che sono numerosissime le riconferme rispetto all’ultima legislatura. E qualche ritorno d’eccezione: come quello di Gaspare Vitrano (di FI, anch’egli dopo un calvario giudiziario) e Giovanni Burtone (nel Pd). Poche le new entry – vanno citati a titolo d’esempio gli eletti della Democrazia Cristiana e i soldati di Cateno – pochissime le donne. Se non si è vecchi, o navigati o maturi politicamente, nessuno ti spalanca le porte di questo “mondo incantato” che è il parlamento siciliano. Persino il giovanissimo Luigi Genovese, nonostante il lignaggio familiare, a questo giro s’è accomodato fuori: scalzato dal ciclone De Luca, che nella sua Messina – in extremis – ha strappato il seggio al figlio di Francantonio.

Al netto dei rappresentanti politici, che comunque è il popolo siciliano a scegliere, anche gli slogan dell’ultima campagna elettorale, che si trascinano stancamente fino alla proclamazione degli eletti, sono quelli di sempre. Stantii e inefficaci. Il Ponte sullo Stretto è una favoletta che tutti ci raccontano, da Roma in giù, da almeno trent’anni. Solo uno come Schifani avrebbe potuto renderla attuale nel 2022, con mille emergenze nei cassetti. E che dire del Centro direzionale, cioè del progetto – per cui Musumeci s’è speso fortissimamente – che vorrebbe riunire sotto lo stesso tetto tutti gli uffici regionali? Senza tener conto che il resto del mondo viaggia in direzione opposta, cioè la smaterializzazione del lavoro? Questa mega struttura dal valore di oltre 400 milioni sembra venir fuori dai vecchi film del ragionier Fantozzi, e non piuttosto da una visione aggiornata che la pandemia ci lascia in eredità: lo smart working, questo sconosciuto. Musumeci, d’altronde, è lo stesso presidente che pressava l’assessore alla Funzione pubblica per richiamare in servizio i dipendenti, nel timore che a casa si grattassero la pancia. Un cerchio che si chiude…