Morti e feriti, politicamente parlando, ce ne sono un’enorme quantità. In primis al parlamento regionale, dove il dato va rafforzandosi ora dopo ora. E soprattutto nel centrosinistra, che incassa una delle sconfitte più dolorose della sua storia e saluta Claudio Fava: l’ex presidente della commissione Antimafia, che ha mancato la rielezione all’Ars, ha scelto di farsi da parte: “Game over”. Il Pd, ovviamente, è un partito in frantumi. Il disastro, già certificato alla vigilia delle elezioni con il ‘silenzio’ della Chinnici, l’esclusione sugli impresentabili e il pasticcio sui paracadutati, si è (ri)palesato un minuto dopo la fine dello spoglio. Quando il segretario provinciale di Palermo, Rosario Filoramo, ha rassegnato le proprie dimissioni perché “non siamo riusciti a metterci in sintonia con gli italiani, veniamo percepiti come il partito del potere, distaccato dai problemi reali del Paese” e “inoltre, abbiamo giocato una partita suicida, non tenendo nel debito conto, di una legge elettorale, che colpevolmente non abbiamo cambiato, che impone le alleanze nei collegi uninominali”.
Il Pd siciliano, martoriato dal terzo posto alle Regionali, subisce una beffa pesantissima pure a Roma dato che elegge l’ex sindacalista Anna Maria Furlan, ligure, al Senato; e Antonio Nicita, siciliano solo di origini, alla Camera. Entrambi al proporzionale, dato che nei collegi uninominali non scattano seggi. Zero. Ottiene il pass per Roma anche il segretario regionale Barbagallo, che dovrà decidere se traslocare a Montecitorio o rimanere sul territorio (otterrà un seggio all’Ars). Vengono eletti alla Camera dei Deputati anche Giuseppe Provenzano, l’ex ministro per il Sud originario di Milena, e l’ennese Stefania Marino. Poco o nulla della classe dirigente locale: Palazzotto e Miceli non erano in posizione utile, l’ex segretario Raciti era stato escluso alla vigilia. Mentre Antonello Cracolici, che si era tirato fuori dopo la decisione di piazzargli davanti la Furlan al Senato, dovrebbe ottenere la riconferma a Sala d’Ercole nonostante i tempi ristretti di una campagna elettorale inattesa.
Ma ad aver fatto danni, quasi inconsapevoli, è la figura di Caterina Chinnici. Figura rispettabilissima, per carità, ma inadatta a gestire una campagna elettorale così greve, in cui bisognava spendersi a ‘mani nude’ per sancire un gap rispetto a chi la Sicilia l’aveva governata. Male. E non basta dare la colpa all’addio dei Cinque Stelle, come ha provato a fare ieri l’europarlamentare. Il suo profilo “troppo istituzionale” ha scoraggiato militanti e alleati. Ha progressivamente allontanato il popolo di sinistra dalle urne (il Pd ha preso il 12%). Ha sfibrato quel che era rimasto della coalizione, portando il movimento Centopassi di Claudio Fava sotto la soglia di sbarramento. Da qui la decisione dell’ex presidente della commissione Antimafia di farsi da parte. Di chiudere un’era: “Mi fermo senza ripianti né recriminazioni – ha scritto sui social -. Molto si potrebbe dire e scrivere su questa campagna elettorale noiosa e reticente, sulle scelleratezze di un partito democratico che in Sicilia preferisce sempre perdere pur di non rinunciare ai propri minuscoli califfati, su una candidata alla presidenza votata al silenzio (non spendere una sola parola sulle macerie ereditate si chiama silenzio, non “sobrietà istituzionale”). Ma anche sulle nostre storie a sinistra scritte sempre in punta di diffidenza, di divisione, di purezza della razza, presunzione, ostilità…”.
Fava, che in questi anni ha condotto l’Antimafia da una prospettiva nuova, senza volersi sostituire alla magistratura ma cercando di far arrivare prima la politica, si chiama fuori: “Ma il punto, ripeto, non è l’esito di queste elezioni – ha scritto Fava -: è la vita che mi sollecita altro, e io le voglio offrire altro. C’entra anche, lo dico per onestà, il mio rapporto faticoso con questa terra. Da quando ho trent’anni ho trascorso il mio tempo a seppellire morti e a cercare nella Sicilia una capacità di verità, di reciproca appartenenza, di condivisione nelle parole, nei gesti, nei dolori, nelle allegrie. A volte ci sono riuscito, a volte no. Adesso è tempo di altre parole e di altri siciliani. È il tempo di quelli che hanno metà dei nostri anni. Che non hanno nessun morto da seppellire. Che provano rabbia, dolore ma anche curiosità e passione. Che non vogliono diventare anch’essi piccoli califfi d’un partitino. Che scelgono con cura le parole, prima di usarle. Ne conosco molte e molti. Fanno mestieri degni, insegnano, studiano, cercano. Sono sicuro che faranno bene”.
Il testamento di Fava si aggiunge alle riflessioni che dovrà fare il Partito Democratico. Per l’8 ottobre è già in programma la direzione regionale, dove si affilano le armi contro Barbagallo. Che già ieri, durante lo spoglio per le Regionali, ha messo le mani avanti: “Il Pd ha condotto una campagna elettorale pancia a terra, senza risparmiarsi, ma non è stato sufficiente. Abbiamo avuto poco tempo per esporre il nostro programma per convincere gli indecisi, la parte preponderante anche di questa tornata elettorale, ad andare a votare. Mi assumo la responsabilità di questo risultato così come tutte le decisioni precedenti. Tutte, lo voglio ricordare, approvate all’unanimità dagli organismi del Partito e condivise con la segreteria nazionale. Abbiamo fatto il possibile con il tempo e i mezzi a disposizione. Anche se, probabilmente qualcuno s’è impegnato molto di più sul dopo e – conclude – molto meno sull’obiettivo principale, che era vincere le elezioni”. Probabilmente c’è stata qualche ingerenza a cui non ha potuto sottrarsi. E che, forse, gli costerà la segreteria. Ma il problema non è soltanto politico. Ma identitario. Di rapporti. Di legami. Per risolverlo serve una cura fuori dalle stanze del potere.