Il 26 settembre, in Sicilia, non sarà soltanto il giorno dello spoglio. O quello del nuovo presidente della Regione e del nuovo parlamento. Bensì la data che sancisce la fine della tregua armata all’interno dei partiti e delle coalizioni, e l’inizio di una resa dei conti che potrebbe trascinarsi per le lunghe. Il centrodestra rischia di deflagrare sulla questione degli assessorati, come ammesso candidamente nelle ultime ore da Totò Cuffaro; ma a rischiare il collasso è soprattutto il Pd se, come pare, la Chinnici non dovesse riuscire nemmeno a conquistare il podio. L’unico partito inerme è il Movimento 5 Stelle, che in questi anni (e fino alla vigilia della campagna elettorale) ha già dato, spaccandosi fino all’atomo.
In Sicilia non esiste più un solo Pd. Ce ne sono almeno tre. Uno fa riferimento ad Anthony Barbagallo, il segretario regionale, che prova a trascinare stancamente in campagna elettorale la figura di Caterina Chinnici, che, ad onor di cronaca, non è mai entrata nel vivo della competizione. La svolta garbata del magistrato non basta a giustificare la sua flemma; mentre la gestione sui paracadutati e la fuoriuscita di alcuni dirigenti storici – definiti ‘impresentabili’ – ha spalancato crepe a sinistra. Antonio Rubino, Erasmo Palazzotto e Carmelo Miceli (gli ultimi due candidati al parlamento nazionale, ma in posizioni assai sfavorevoli) hanno già lanciato un avvertimento per il 26 settembre: “Vogliamo aprire il Pd a tutte le forze che non trovano spazi perché la politica usa spazi che non sono accessibili”, ha detto Palazzotto, senza spiegare nel dettaglio come. Non sarà un correntone, secondo i protagonisti, ma un progetto nuovo che si sviluppa da una costola del Pd. Sembra, più che altro, un pretesto per lanciare l’Opa sulla leadership di Barbagallo, che in questa fase ha dovuto sottostare a diverse ingerenze. La rinuncia a Lupo, Villari e Bosco (questi ultimi passati con De Luca) è stata determinata da un’impuntatura della Chinnici, della quale – probabilmente – si perderanno le tracce all’indomani di una eventuale sconfitta.
Resterà in campo, eccome, Antonello Cracolici. L’altro scontento che, nel pieno di una campagna elettorali per le Regionali che non aveva in programma di affrontare, ha già dato l’avviso ai naviganti: “Nella composizione delle liste per le elezioni nazionali, in particolare con la scelta di alcuni capilista che non rappresentano la Sicilia, è stata mortificata la dignità del Partito Democratico siciliano. È stato compiuto un grave errore, tutto questo è accaduto con le ipocrisie della classe dirigente nazionale e con i complici silenzi e l’accondiscendenza della classe dirigente regionale. Ecco perché il mio impegno in questa campagna elettorale è rivolto anche a quello che succederà dal giorno dopo le elezioni: dal 26 settembre si apre una sfida, dobbiamo cambiare il nostro partito nelle fondamenta”. “Dobbiamo costruire un nuovo Pd siciliano e nazionale – ha aggiunto Cracolici– dobbiamo costruire un Pd con la testa e con il cuore nei territori, che non sia mai più un partito pensato come una sorta di ‘azienda centralizzata’ con filiali in giro per l’Italia”. Barbagallo, sollecitato nei giorni scorsi dal nostro giornale, ha spiegato che “il dibattito negli organismi è sempre auspicabile. Lo affronteremo in direzione. Ma prima bisognerà capire se saremo in maggioranza – come noi crediamo – o all’opposizione; e quale sarà la composizione dei gruppi parlamentari”.
A sinistra, invece, non è mai attecchita l’alleanza organica con il movimento Centopassi. E non – questa volta – per una colpa specifica da parte del Pd. Ma per la ‘partigianeria’ di Caterina Chinnici, che ha organizzato eventi solo col suo partito, senza offrire una sponda reale a Claudio Fava: cioè l’unica stampella rimasta alla sua candidatura priva dell’apporto (fondamentale) dei Cinque Stelle. Fava e la Chinnici hanno condotto due campagne parallele, che si incroceranno solo tra qualche sera, il 22 settembre, a Palermo, in piazza Sant’Anna. Con la presenza, fra gli altri, del ‘federatore’ Enrico Letta. Il segretario nazionale del Pd ha già provato a mettere una pezza dopo il mancato invito di Fava alla ‘prima’ di Villa Filippina. E’ riuscito solo in parte, però, a mascherare il malcontento dell’ex presidente dell’Antimafia, che da parte sua è rimasto fedele al progetto originario.
In questi giorni, invece, è svanito il rapporto fra la Lega e gli Autonomisti. Un patto federativo che durava da circa due anni e che Raffaele Lombardo, preso alla sprovvista da sondaggi un po’ troppo sfavorevoli, ha sciolto unilateralmente. Adducendo un paio di motivazioni: la prima è programmatica. “Se Salvini leggesse il patto federativo, che ha firmato e forse non ha letto, si accorgerebbe che c’è un impegno programmatico di livello – ha spiegato Lombardo a ‘La Sicilia’ -: misure per ridurre il divario Nord-Sud, mentre la Lega parla di autonomia differenziata, di fatto è una secessione economico-sociale”. La seconda motivazione è persino più sostanziale e coincide col mancato rispetto di un impegno: cioè “che i migliori candidati autonomisti” finissero “nella lista nazionale della Lega. Non in posizione utile, ma comunque coinvolti. Ma avremmo dovuto comporre una lista comune anche all’Ars”. Cosa che non è avvenuta. La Lega, piena zeppa di grandi firme (tra cui alcuni fuoriusciti eccellenti dell’Udc), è andata per i fatti propri. L’Mpa, invece, ha affidato le proprie sorti alla lista dei Popolari e Autonomisti, come cinque anni fa, ospitando a bordo ciò che è rimasto del Cantiere Popolare di Saverio Romano. Secondo Lombardo basta e avanza per avvicinarsi al 10 per cento (i sondaggi, invece, suggeriscono che non verrà raggiunta la soglia di sbarramento).
Da parte sua, la Lega, avrà più di un problema a blindare i due-tre assessorati di cui si vocifera. Per fare in modo che accada, il partito di Salvini dovrebbe quanto meno avvicinarsi alla doppia cifra. E sperare che almeno una delle cinque liste a sostegno di Schifani rimanga fuori. Il segretario regionale Minardo ha già rivendicato l’assessorato all’Agricoltura per un esponente della sua provincia: Ragusa. Ma le liste del Carroccio, oggi Prima l’Italia, sono molto competitive a Palermo, Catania e Trapani. Chi accetterà di rimanere senza? Il discorso sugli assessorati è quello che fa traballare la tenuta del centrodestra ancor prima della proclamazione del 25. Totò Cuffaro, che per qualche settimana ha tenuto il profilo più basso, si è accorto di questa anomalia: “Non mi appassiona il dibattito oggi di moda tra i leader del centrodestra su chi deve prendere più assessori e su chi deve assumere la delega della Sanità. Ho fatto la somma degli assessorati che hanno deciso di prendere e ad occhio e croce i conti non tornano. La Dc (che per l’occasione ingloba al suo interno l’Udc, ndr) sta facendo la sua umile ed onesta campagna elettorale – ha aggiunto Cuffaro – senza nulla chiedere ma impegnandosi a fare un buon risultato ed eleggere un po’ di deputati. Sarà il numero dei parlamentari che eleggeremo che ci consiglierà di avere la quota di assessori che ci spetteranno”.
Poi ha aggiunto un elemento che rischia seriamente di far saltare il banco (gli indizi ci sono già: provengono da Gianfranco Micciché e da Ruggero Razza, organizzatore di un convegno dedicato a Catania): “Umilmente e nell’interesse dei siciliani – ha detto Cuffaro – consiglierei al Presidente Schifani di scegliere il meglio per assegnare la delega della Sanità. Mi permetto di pensare che sulla salute dei siciliani dovremmo tutti evitare di far valere logiche inopportune”. Ma la girandola di nomi e di soluzioni è già partita. E a meno di una settimana dal voto pare quasi impossibile arrestarla. Il clima tesissimo di questa campagna elettorale, con Forza Italia e Fratelli d’Italia a giocarsi il primato e rimpallarsi eventuali responsabilità di voto disgiunto (che finirebbe per favorire De Luca), rischia di provocare a Schifani un’enorme emicrania. E di consegnare alla Sicilia un governo ingovernabile.