“L’ultima volta che misi piede al parlamento regionale era il 26 gennaio del 2008, me lo ricordo perfettamente. Il 18 era arrivata la prima sentenza di condanna, che non era una condanna per mafia; ma era già sufficiente perché decidessi di rassegnare le mie dimissioni da governatore. Ho atteso qualche giorno perché in aula si discuteva il bilancio. Ma un minuto dopo il voto, ho chiesto la parola e comunicato la mia decisione. E poi non ho festeggiato a cannoli, quella è stata un’invenzione”. Sono passati oltre dieci anni. Ma il ricordo è ancora vivido. Il 13 settembre Totò Cuffaro torna a palazzo dei Normanni, nelle vesti di relatore. E’ stato invitato dal parlamentare Vincenzo Figuccia al convegno “Oltre le sbarre. Uno sguardo ai diritti e alle tutele dei figli dei detenuti”. Porterà la sua testimonianza, quella di un uomo di potere che governò a lungo la Sicilia, ma che trascorse in carcere – a Rebibbia – le stagioni più difficili della sua vita. Quasi cinque anni, fra il 2011 e il 2015. Che hanno segnato l’uomo e cancellato di colpo il politico.
Sui giornali si è ipotizzato un suo ritorno. Magari alle Europee del 2019. E’ un’ipotesi concreta?
“E’ una cosa che non esiste. Non mi candiderò mai più a nessun ruolo. Sfatiamo questo mito”.
Non le mancano le istituzioni?
“Assolutamente no. C’è stato un tempo per la politica attiva, ma ora è il tempo della politica umanitaria. C’è un progetto in Burundi che mi impegna a tempo pieno. Ho rispetto per le istituzioni, sono un appassionato di politica e un attento osservatore di quello che succede nella mia terra. Stop”.
Eppure la sua presenza all’Ars, dopo dieci anni, ha scatenato una ridda di ipotesi e di polemiche. Cancelleri e i 5 Stelle hanno parlato di “una cosa disgustosa, uno schifo”, e hanno rimproverato Micciché per averle concesso di rientrare a palazzo Reale. Il presidente dell’Assemblea, dal canto suo, ha detto al suo vice di “non fare il giustiziere” e che “mettere la museruola a qualcuno è segno di paura, non di forza”.
“Non capisco tutta questa attenzione. Sono stato invitato a parlare a un convegno e portare l’esperienza di chi ha vissuto il proprio periodo di detenzione nello spirito della rieducazione e della risocializzazione. Lo faccio ormai da tre anni. Suscita clamore che sarò ospite in una sala del parlamento regionale (dedicata a Piersanti Mattarella), e qualcuno si oppone. Ma io, quando sono uscito dal carcere, ho fatto una promessa ai miei compagni detenuti: spiegare che nelle carceri, nonostante non ci sia la parte migliore della società, ci sono uomini e donne che vanno rispettati. Che hanno una dignità e sperano, un giorno, di tornare a vivere con le loro famiglie e rendersi utili alla società. Dirò quello che secondo me serve per umanizzare le carceri, che non vanno considerate come storie di corpi, ma di anime”.
Come si fa a esercitare il ruolo di genitore durante la detenzione?
“Non è semplice. Già le nostre famiglie vivono momenti difficili e sono vittime della disgregazione. Figuratevi quando c’è un padre detenuto, che anziché essere un soggetto attivo e produttivo da un punto di vista economico, diventa un peso. Ecco perché il Paese deve attenzionare il ruolo dei genitori anche all’interno delle strutture penitenziarie. Con questo sistema non è facile continuare a fare il padre e la madre. Senza la possibilità di poter accarezzare i propri figli o tenere per mano la propria moglie. O avere il tempo contingentato. Non capisco, ad esempio, perché imporre a un padre il limite di due telefonate al mese al proprio figlio. Cosa gli impedisce di poterlo fare due o tre volte a settimana? Non servono leggi, ma buonsenso. Altrimenti, anziché rieducarli, si rischia di spingere i detenuti verso un sentimento d’odio nei confronti del sistema. Non è quello che vorrebbe la Costituzione”.
E’ vero che l’ex presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, qualche tempo fa le negò di presenziare a un altro convegno organizzato a Palazzo dei Normanni?
“Sì. Il presidente dell’Assemblea disse che non avrebbe dato il permesso se ci fossi stato io fra i relatori, così gli organizzatori hanno preferito dirottare il convegno altrove. Ma anche il presidente dell’Assemblea, nella sua sensibilità, aveva il diritto di esprimere la sua idea. Che non condivido ma rispetto”.
Anche stavolta il suo ritorno ha fatto rumore. All’attacco spregiudicato dei grillini si è opposto persino Claudio Fava, il presidente della Commissione Antimafia. Il quale ha spiegato che “se fosse stato un omicida, un terrorista o un tangentista nessuno si sarebbe strappato le vesti”. E che non è giusto “alzare le forche in piazza” solo perché si parla di Cuffaro “il quale ha diritto di parlare della sua esperienza da detenuto”.
“Victor Hugo dice che “detenuti si rimane per tutta la vita”. Io amo Hugo, ma bisogna avere la forza di sfatare questa verità. Ammetto di aver fatto tantissimi errori, ma ho scontato la mia pena e creduto nella giustizia. Questa non è soltanto un dovere, ma soprattutto un diritto. I doveri si ottemperano, i diritti si scelgono e si vogliono. E bisogna dimostrare di credere nella giustizia quando questa ti graffia le carni. Crederci quando fa male agli altri è facile. Io mi sono consegnato spontaneamente un minuto dopo la sentenza di condanna, senza aspettare l’ordine di carcerazione. Ho scontato fino all’ultimo giorno, senza usufruire di sconti o affidamenti in prova. Mi è stato fatto di tutto e l’ho accettato. Il mio impegno oggi merita rispetto. Mi dispiace che qualcuno la pensi diversamente”.
I Cinque Stelle: garantisti con la Lega e Salvini, giustizialisti con il resto del mondo. Cosa ne pensa?
“Potrei dire tante cose dei Cinque Stelle, ma non ne ho voglia e non ne sento il bisogno. Loro hanno scelto un metodo di approccio alla politica e lo portano avanti. Posso dire che non lo condivido, ma è la loro scelta. Visto il consenso che hanno ricevuto, ritengono che questa sia la strada giusta. Il carcere mi ha insegnato a non giudicare neppure me stesso, quindi mi guardo bene dal giudicare gli altri”.
Varcare il portone di Palazzo dei Normanni le darà emozioni particolari?
“In carcere di emozioni ne ho vissute tante. Chi non c’è mai stato, non può capire quanta gioia si provi nel poter incontrare tua moglie o i tuoi genitori, che si sono fatti sei ore di fila per trascorrerne una insieme a te, sebbene in un luogo di sofferenza. Raccogliere le lacrime dei tuoi figli, lacrime di dolore, mi ha dato la forza per andare avanti. In ogni caso, anche tornare nel luogo in cui sono stato per anni mi susciterà delle emozioni che spero di valorizzare così come ho fatto con le speranze, i sorrisi, le carezze che tanti siciliani mi hanno regalato quando ho lasciato Rebibbia, assistendo alla presentazione dei miei libri”.
Detto che non tornerà in politica, quali sono attualmente i progetti di Totò Cuffaro?
“Da qualche anno faccio il medico in Burundi. Assieme al collega Stefano Cirillo abbiamo creato l’associazione “Aiutiamo il Burundi”. Il governo di quel Paese ha chiesto il nostro aiuto e stiamo collaborando con loro per portare avanti un grosso ospedale. Portiamo lì chirurghi, ortopedici, dentisti, pediatri, anestesisti. C’è bisogno di tutti. In Italia, dopo la rottura di un femore, servono sei mesi per tornare in forma; in Burundi un bambino che si spezza un femore rischia di rimanere storpio a vita. Il 15 ottobre al Teatro Massimo di Palermo faremo un gran galà per raccogliere fondi. Verranno tanti amici del mondo dello spettacolo e la più importante cantante del Burundi. Il prossimo obiettivo è attrezzare il reparto di neonatologia dell’ospedale e fare delle donazioni agli orfanotrofi”.
Com’è cambiata in dieci anni la politica siciliana?
“Non so se in meglio o in peggio, non è cambiata sicuramente a causa della mia assenza. Il mio era un approccio umanitario, di immedesimazione nelle istanze popolari tanto che mi sono beccato il soprannome di Totò Vasa Vasa, che per altri era sinonimo di “cuffarismo”. Qualcuno ultimamente l’ha rivisitato in “cuffaresimo” e mi fa molto piacere. Chi è venuto dopo di me ha scelto di tenere lontane, distanti e separate le istituzioni dal popolo. E quello che è venuto dopo ancora, seppur con più allegria e goliardia, ha sancito una frattura che i siciliani non credano abbiano apprezzato. Ora c’è un presidente che sta facendo del suo meglio, speriamo che riesca a far crescere la Sicilia. Spetta agli osservatori, a chi analizza i dati del Pil, della disoccupazione, del lavoro dire se si sta meglio oggi o quando governavo io”.
Quello fra Lega e Cinque Stelle può considerarsi una vera esperienza di governo o un inciucio frutto dei numeri?
“E’ un’esperienza anomala, perché stanno insieme due spazi politici che hanno poco in comune se non la voglia di governare. Ma non si può pensare che governare significhi soltanto chiudere i porti o continuare a sostenere che la salvezza di tutto sia il reddito di cittadinanza. Il governo e la politica sono cose ben più impegnative. Ma è giusto attendere altre risposte”.
Che idea si è fatto della gestione del fenomeno migratorio?
“Io continuo a pensare che la Sicilia è un porto da tremila anni e rifiuto l’idea che qualcuno possa chiuderlo e smettere di accogliere. Noi siamo terra di accoglienza. La nostra è la storia di un popolo di emigrati che venivano fermati su un’isola e messi in quarantena prima di entrare negli Stati Uniti. Quelle persone, a distanza di generazioni, sono diventate testimonianza di come si possa svolgere un ruolo nella società e persino nelle istituzioni. Basti vedere gli ultimi sindaci di New York. Io penso che questo debba farci riflettere. Chi scappa dalla guerra e della paura per andare incontro alla speranza, merita un pizzico di fiducia”.