Due candidati legati da una comune esperienza di lutto e dolore. È la sublimazione politica dell’antimafia. Claudio Fava e Caterina Chinnici si sfidano alle primarie del centrosinistra per la presidenza della Regione siciliana. Sono entrambi figli di vittime della mafia.
Come in una catarsi il dolore intimo è divenuto sofferenza collettiva. E la sofferenza, in alcuni casi, è sfociata in militanza e protagonismo antimafia. A volte genuino e spontaneo, altre urlato o, ancora, sollecitato. C’è chi, infatti, ha ritenuto che il dolore dei parenti delle vittime avesse delle proprietà terapeutiche per la purificazione. Delle coscienze, della burocrazia, della politica.
Alcuni ci hanno creduto davvero, altri hanno solo indossato la maschera dell’antimafia per una grande messinscena. Il dolore di uomini e donne serviva solo per catalizzare il consenso. La Sicilia è rimasta impantanata nella melmosa predicazione dei governanti portatori sani di rigore e moralità. Era un’impostura. La muffa ci ha messo poco a riaffiorare sotto la lucentezza delle storie personali dei singoli.
C’è chi dalla scena – politica-mediatica-giudiziaria – si è tenuto volutamente alla larga, anche a costo di pagare il pezzo, ingeneroso, di vedere sbiadire, anno dopo anno, il ricordo del sacrificio dei propri cari. Come se ci fosse una classifica dei morti ammazzati. Come se le ferite di alcuni fossero meno laceranti di altre. Meritano tutti rispetto, alla stessa maniera, sgombrando subito il campo dalle maldicenze.
“Siamo figli di papà, di papà ammazzati però”, disse qualche tempo fa Claudio Fava, figlio del giornalista Giuseppe, che tutti chiamavano Pippo, assassinato a Catania nel 1984. Qualcuno aveva impropriamente sussurrato che il dolore servisse a fare carriera. E vedi che vantaggio ad avere il padre ammazzato. Fava ci riprova. Vuole diventare governatore della Sicilia. L’antimafia resta un tema centrale, non fosse altro che per sfidare Fava il Partito democratico ha deciso di puntare su Caterina Chinnici, figlia del magistrato Rocco, il giudice galantuomo che ebbe l’intuizione del pool antimafia e per questo saltò in aria appena sceso dalla sua abitazione palermitana. Era il 29 luglio 1983 quando i mafiosi fecero esplodere un’autobomba che dilaniò anche i corpi di due uomini della scorta e del portiere dello stabile.
Nelle loro candidature c’è la rivendicazione da parte del centrosinistra del primato dell’antimafia. Giornalista, scrittore e deputato regionale Fava, appoggiato dalla sinistra (anche se preferisce dire che si rivolge a coloro che non hanno sigle), magistrato e parlamentare europea Chinnici.
Con il nome di Caterina Chinnici il Pd tenta di allargare al centro il consenso, guardando agli autonomisti. Quegli autonomisti il cui leader in Sicilia è Raffaele Lombardo. Lo stesso Lombardo che volle Chinnici come assessore nella giunta regionale che governò la Sicilia dal 2009 al 2012. Una parentesi che ai duri e puri dell’antimafia, qualche anno fa, fece venire l’orticaria per le disavventure giudiziarie di Lombardo. A spazzare via il residuo imbarazzo, lo scorso gennaio, ha provveduto la Corte d’Appello di Catania che ha assolto l’ex presidente della Regione siciliana dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. Dall’inizio dell’indagine sono trascorsi 12 anni, un’eternità. Qualcuno si ostina a chiamarla giustizia, ma questa è un’altra storia.
Scampato il pericolo, la vecchia vicinanza di Chinnici a Lombardo può essere un valore aggiunto per ampliare il perimetro della coalizione. Fava le contrappone la sua militanza politica, costruita ben oltre il recinto dell’antimafia dove, però, tutto ebbe inizio. Era il 1985 e Leoluca Orlando diventava sindaco di Palermo. Lo sarebbe stato altre quattro volte. Quando il professore democristiano fonda la Rete al suo fianco c’è Fava (è stato anche parlamentare dei democratici di sinistra, di cui fu il segretario regionale per scelta di Walter Veltroni). La Rete nasceva come movimento contro il sistema e aveva nell’antimafia il suo vessillo. I tre candidati retini arrivarono ai ballottaggi per le amministrative delle grandi città: Diego Novelli a Torino, Claudio Fava a Catania e Nando Dalla Chiesa a Milano. Quest’ultimo è il figlio del prefetto Carlo Alberto, assassinato dalla mafia assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo. Il prossimo 3 settembre saranno trascorsi 40 anni dall’agguato. Nando Dalla Chiesa oggi fa il professore universitario a Milano. Molti dei suoi corsi di sociologia sono legati ai temi della legalità e della criminalità organizzata. Il sindaco Beppe Sala lo ha voluto nel comitato antimafia del Comune.
I retini persero tutti in quella tornata elettorale, tranne Orlando. Erano gli anni della spregiudicata polemica con Giovanni Falcone e la Procura sulle carte dei misteri palermitani che Orlando sosteneva fossero colpevolmente rimaste “nei cassetti”, del “mascariamento” dell’avversario, del “sospetto anticamera della verità” motto del gesuita Ennio Pintacuda, mentore di Orlando prima di una rottura mai sanata.
L’ex sindaco di Palermo – la lingua inciampa fra i denti nel definirlo tale – ha usato l’antimafia come paravento per nascondere le sue inefficienze, mentre si assisteva al declino di una città. Parlava di visione futura mentre la spazzatura si accumulava per strada e le bare insepolte sotto un tendone maleodorante nel camposanto della città. I problemi restavano tali, mentre il Professore era indaffarato a ripetere che Palermo non era più la capitale della mafia.
Gli parve un tradimento quella volta, nel 2012, che i suoi concittadini non scelsero Rita Borsellino, la sorella del magistrato ucciso, alle primarie del centrosinistra per il candidato alla sua successione. Borsellino perse nonostante il cognome e nonostante godesse dell’appoggio di Orlando che allora decise di scendere in campo. Da solo contro tutti. E vinse. Rita Borsellino rimase per altri due anni al parlamento europeo dove era stata eletta con il Pd. Se l’è portata via una brutta malattia. Dalla militanza antimafia – quella degli anni al fianco di don Luigi Ciotti nell’associazione Libera prima che diventasse una holding dei beni confiscati – alla candidatura alla presidenza della Regione. Uscì sconfitta nella sfida con Totò Cuffaro che non era ancora stato condannato per mafia. In politica Rita Borsellino c’era arrivata dopo anni di impegno sociale, di incontri con gli studenti e iniziative nel mondo dell’associazionismo. Una testimonianza antimafia profonda, fatta di piccole cose e grande umanità, da parte di una donna timidissima.
“Una combattente”, la definì Maria Falcone, sorella del magistrato assassinato a Capaci, la cui elegia della legalità è stata un crescendo travolgente. Rita Borsellino incontrava una scolaresca, Maria Falcone di scolaresche ne ha piazzate decine sulle navi della legalità che conducevano gli studenti a Palermo per il 23 maggio. C’è voluto un palco da rock star, allestito al Foro Italico, per ospitare le ultime commemorazioni organizzate dalla Fondazione Falcone. Si sono udite parole sincere, ma anche dosi massicce di retorica. È inevitabile quando un evento diventa nazional popolare tanto da essere trasmesso in diretta Rai. È il prezzo da pagare per coltivare la memoria in grande stile e non essere confinati nella nicchia dei cinema d’essai. Le canzoni di Gianni Morandi davanti all’albero Falcone valgono mille volte di più di sonnacchiosi convegni. Le note di “fatti mandare dalla mamma…” hanno il potere taumaturgico di rendere la mafia un problema non solo siciliano.
Maria Falcone non ha ceduto alle lusinghe della politica. Chissà quante ne avrà ricevute. Mai candidata, però. Ma la politica non è certo rimasta indifferente alle sue affermazioni. A Roberto Lagalla, sindaco del dopo Orlando, Maria Falcone ha chiesto “di dire parole chiare contro i mafiosi e chi li ha aiutati e di ripudiarne appoggi e sostegno”. Ce l’aveva con Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro. L’ex senatore di Forza Italia si è limitato a un endorsement in favore di Lagalla, mentre l’ex governatore siciliano, alla guida della Nuova Democrazia Cristiana, ha piazzato degli eletti in consiglio comunale. È il ritorno del condannato Cuffaro in politica.
Un tema, quest’ultimo, che ha catalizzato l’attenzione durante la campagna elettorale palermitana. Più dei programmi e delle soluzioni per affrontare i problemi di una città che affonda. Ancora più esplicito è stato Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, la moglie di Giovanni Falcone. Sono morti insieme a Capaci. “Sicilia in mano ai condannati per mafia”, ha detto Morvillo, ex magistrato in pensione. La figura di Cuffaro è sempre stata divisiva. Lo era da governatore, figuriamoci adesso da ex condannato che riempie i teatri di elettori e simpatizzanti. Il coro indignato ha soffocato – non poteva essere altrimenti – una voce che meritava di essere ascoltata già per il solo fatto di provenire, anch’essa, dalla schiera dei parenti delle vittime di mafia.
L’avvocato Andrea Piazza ha un doppio ruolo e “nessun imbarazzo”. Lavora politicamente al fianco di Cuffaro ed è fratello di Emanuele, poliziotto inghiottito dalla lupara bianca in uno dei capitoli ancora misteriosi della storia giudiziaria italiana. Emanuele Piazza cercava i latitanti mafiosi. Voleva arrestare Totò Riina e Bernardo Provenzano, ma è morto strangolato – il 15 marzo 1990 – e il suo corpo sciolto nell’acido. A tradirlo un amico e uomo d’onore, Francesco Onorato.
Il fratello Andrea, con il garbo che lo contraddistingue, ha detto la sua in un dibattito che ha preso la piega del giustizialismo. La storia giudiziaria di Cuffaro sta lì, non si cancella. Piazza la affronta innanzitutto dal punto di vista umano. Cuffaro e il fratello erano amici e ritiene che “ogni essere umano possa migliorare nel tempo”. E poi c’è l’aspetto tecnico, processuale che, sollevato da uno che di mestiere fa il legale, finisce per rendere il suo pensiero destabilizzante: “Ritengo che le sentenze si debbano rispettare, ma possono essere criticate. E io sono critico nei confronti dei giudici che hanno condannato Totò Cuffaro”.
Andrea Piazza fa l’avvocato e si occupa di politica. Nel frattempo coltiva la memoria del fratello lontano dai riflettori. Di Andrea si parla poco, come di altre vittime di mafia. Chi si ricorda, ad esempio, di Natale Mondo, il poliziotto capace di infiltrarsi nei clan mafiosi. Amico di Ninni Cassarà, collega fidato di Beppe Montana. Tutti morti, tutti uccisi dalla mafia, tutti mai ricordati quanto meritino, nonostante l’impegno di parenti e colleghi. Per altri, come il capo della Mobile di Palermo Boris Giuliano, è stata una fiction Rai a riconoscere il giusto tributo alla memoria con tutti i limiti che un prodotto televisivo porta con sé.
È stata una parentesi in un contesto di cerimonie private. Quelle pubbliche assomigliano sempre più a passerelle vuote di significato. Occasioni per mettere in mostra i pennacchi dell’antimafia. Qualcosa dovrà pur significare se i primi a disertarli sono i parenti delle vittime. Il prossimo appuntamento è per il 19 luglio, quando ricorrerà il trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio. Ha già annunciato che non ci sarà Fiammetta Borsellino, uno dei figli del magistrato. Non vuole correre il rischio di trovarsi fianco a fianco con coloro che hanno provocato il “gelo” che ha sentito attorno a sé “quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi”.
Per anni ha vissuto nel riserbo, poi ha deciso che era arrivato il momento di picconare le ipocrisie dei magistrati che sfilavano alle parate antimafia, sperando che nessuno si ricordasse che trent’anni prima non si erano accorti delle bugie dei falsi pentiti sull’attentato di via D’Amelio. Hanno fatto finta di nulla. Si sono trincerati dietro tanti, troppi non ricordo. Nessuno ha chiesto scusa. Fiammetta è divenuta portavoce del dissenso anche di fratelli Manfredi e Lucia.
Manfredi fa il commissario di polizia a Palermo. Neppure lui sarà presente alle commemorazioni che qualche anno fa definì “senza senso”. Erano i giorni in cui abbracciò il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Bisognava difendere l’altra sorella Lucia che, disse Manfredi, “ha portato una croce”. Si riferiva al “clima di ostilità e alle offese che le venivano rivolte” mentre tentava, da assessore regionale alla Salute, di contribuire a “una sanità libera e felice”. Lucia Borsellino aveva sposato il progetto del governatore Rosario Crocetta. Si dimise con una lettera che produsse solo silenzio e indifferenza. Lucia capì di essere diventata, suo malgrado, il simbolo di una rivoluzione, quella di Crocetta, strombazzata e miseramente fallita. Nella terra che celebrava come eroe il padre, lei che con il padre aveva vissuto in simbiosi, correva il rischio di divenire il capro espiatorio della inefficienza della politica.
La famiglia Borsellino non si è mossa compatta in questi anni. Da una parte i figli di Paolo, dall’altra il fratello Salvatore. La sua è una storia di partigianeria politica e giudiziaria. Si è abbracciato con l’icona dell’antimafia Massimo Ciancimino prima che la sua credibilità crollasse sotto il peso delle menzogne. Si è iscritto al partito della trattativa, strenuo difensore dei magistrati che il processo lo hanno istruito, anche quando l’impianto accusatorio iniziava a mostrare le crepe che ne avrebbero provocato il disfacimento. Si è schierato contro chi ha osato criticare il lavoro della magistratura per non avere saputo riconoscere le bugie dei falsi pentiti.
L’ultima spaccatura, la più evidente, si è consumata al processo di Caltanissetta sul “depistaggio” delle indagini su via D’Amelio. L’avvocato Fabio Trizzino li ha elencati uno per uno nella sua arringa. Roberto Scarpinato, Anna Maria Palma, Carmelo Petralia e Antonino Di Matteo: sono i magistrati che credettero alle menzogne dei collaboratori di giustizia o che non svilupparono l’indagine “mafia e appalti”. E cioè il fascicolo a cui stava lavorando Paolo Borsellino e dietro cui si nasconderebbe il vero movente della strage.
La famiglia Borsellino si sarebbe attesa almeno delle scuse per i trent’anni senza verità. “Scuse mai arrivate”, ha detto Trizzino che oltre a rappresentare i figli di Paolo come parte civile, è anche il marito di Lucia. Salvatore Borsellino si è apertamente dissociato dalle parole dell’avvocato Trizzino e dei nipoti. Uno scontro familiare consumato sul terreno dell’antimafia che resta un tema centrale tra catarsi, impegno genuino e imposture.