Whatever it takes. Che è il motto sul blasone di Draghi. Anche a costo di recarsi con mezzo governo italiano in Turchia e farsi ritrarre in attesa di essere ricevuti da Erdogan, il sultano della Nato, quello che fa il bello e il cattivo tempo nei paesi confinanti del Medio Oriente, Siria e Iraq soprattutto, ma pure in Nord Africa, nella Libia delle milizie tribali.
La prossima settimana Erdogan si incontrerà a Teheran col presidente della Federazione russa Putin e con quello dell’Iran, Ebrahim Raisi. In programma un vertice sulla Siria e colloqui bilaterali sul conflitto in Ucraina.
Erdogan è uno che sa il fatto suo. Ha già insediato truppe oltre frontiera. Ha occupato di fatto territori siriani o iracheni. Per non parlare della questione dei curdi, il popolo senza terra da sempre nel suo mirino.
Nessuno in Occidente ha battuto ciglio. Noi abbiamo continuato a voltarci dall’altra parte. Con tutta serenità.
Eppure, l’epopea dei combattenti curdi ha avuto il suo momento di gloria per la tenace resistenza offerta all’avanzata dello Stato islamico e alla nera bandiera dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Ma erano altri tempi. Le foto dei peshmerga e, soprattutto, delle peshmerga in armi campeggiavano sui giornali mainstream. I guerrieri curdi avevano il sostegno degli Stati Uniti e di tutto l’Occidente. La narrazione li accompagnava e li rendeva leggenda. Il tradimento dell’Occidente si doveva ancora consumare.
In quell’altra era geopolitica, precedente alla guerra d’Ucraina, l’allora appena nominato presidente del consiglio italiano, Mario Draghi ci aveva anche provato a definire Erdogan “per quello che è, cioè un dittatore”. Col risultato di provocare il peggiore incidente diplomatico nella storia recente delle relazioni tra Roma e Ankara. Poi aveva dovuto metterci una pezza sopra: “Dittatore sì, ma necessario. Ce n’è bisogno”. E pazienza per l’umiliazione inflitta a Ursula Von der Leyen, con cui Mario Draghi condivide più di un obiettivo comune. Ricorderete che in quei giorni la presidente della Commissione europea era stata lasciata in piedi alla presenza di Erdogan, senza neppure una sedia, nonostante fosse in visita ufficiale in Turchia.
Whatever it takes, dunque. Di scuola gesuitica, è noto. Al momento la più grande fabbrica di potere al mondo. Nel governo della cosa pubblica e nel governo delle anime cristiane e cattoliche. Da Bergoglio a Biden, per finire a Draghi, non si contano i gesuiti o discepoli dei gesuiti nei posti di comando.
Whatever it takes. La forma inglese di “Todo modo para buscar la voluntad de Dios”. Secondo la regola degli “Esercizi spirituali” stilati da Ignazio di Loyola, cavaliere e soldato prima di fondare la Compagnia del Gesù e diventare Santo. “Cercare la volontà divina con qualsiasi mezzo. Ad ogni costo”.
Se il fine giustifica il mezzo, i nostri valori occidentali si sono arenati nella guerra d’Ucraina, annessi e connessi. Pazienza per i curdi, fino a ieri l’altro i nostri eroi, coraggiosi difensori dell’Occidente contro la barbarie dei tagliagole jihadisti.
Sul piatto della bilancia dei principi “non negoziabili” hanno pesato molto meno dell’ingresso della Svezia e della Finlandia nella Nato. Li abbiamo (s)venduti a Erdogan che, in cambio del suo benestare sull’ingresso dei due paesi nordici nella Nato ha preteso un patto scritto. Un documento che prevede, “sulla base delle informazioni fornite dalla Turchia”, l’estradizione di membri del Pkk, come presunti terroristi, ma anche degli appartenenti alle organizzazioni affiliate come l’Ypg curdo-siriano, le milizie che proteggono l’esistenza del Rojava o Kurdistan occidentale. Poco importa se la regione autonoma del Rojava sia da sempre considerata dal nostro Occidente un esperimento politico laico, multi-etnico e multi-religioso da preservare.
Finlandia e Svezia toglieranno anche il bando alla vendita di armi ad Ankara. In sintesi Erdogan ha ottenuto di potere fare tutto, proprio tutto ciò che vuole. Nel nord della Siria, in Iraq e, ovviamente, anche nel Kurdistan turco. Come se non fosse già bastato, per esempio, l’eccidio di Cizre, città curda dell’Anatolia più estrema, completamente rasa al suolo dai carri armati turchi dopo 79 giorni di assedio tra la fine del 2015 e il 2016.
Un massacro documentato grazie a una giornalista di origine curde, Berfin Kar, la quale rimase col suo cameraman a filmare la tragedia di Cizre e dei suoi abitanti. La sua storia ha ispirato il documentario “Kurdbûn – Essere curdo”, prodotto in Italia e diretto dal regista curdo-iraniano Fariborz Kamkari. Proiettato anche a Bruxelles, il regista ha sempre sottolineato che: “Non dobbiamo voltare le spalle a coloro che soffrono per le guerre”.
Ma noi, intenti a guardare la tragedia dell’Ucraina, abbiamo distolto lo sguardo dalle persecuzioni nei confronti degli yazidi, popolo antichissimo che vive nelle montagne del Kurdistan, dai bombardamenti turchi sui civili curdi, siriani, iracheni, dal ricatto permanente sui flussi migratori dei profughi che l’Europa non vuole.
Chissà come andrà a finire. Chissà, l’ennesima storia di innamoramenti e tradimenti. L’ultima illusione connessa al relativismo occidentale. All’alchimia della morale a doppio standard. Nel caso specifico manco per i nostri interessi, ma per gli interessi atlantisti e americani.
E’ successo a Saigon a fine aprile del 1975. E’ successo a Kabul lo scorso anno. Alla fine nella nostra memoria corta resta solo la fotografia. Gli elicotteri o gli arerei militari degli Stati Uniti che evacuano americani e alleati dalle città ormai perdute. E la ressa di chi cerca di salire a bordo e salvarsi.