Certo, la villa è comoda, ci sono i camerieri, il giardino. E poi, vuoi mettere l’ospitalità di Berlusconi? Però l’idea che, alla fine, sempre da papà si torna perché i due baldi giovani non sono in grado di avere una garbata telefonata per fissare un incontro, è il miglior commento della vicenda. Ovviamente il Cavaliere, che si sente leader a vita di tutti a dispetto del tempo e dei voti che passano, non vedeva l’ora di proporre una due giorni per chiarire presente e futuro del centrodestra dopo la botta elettorale.
Nelle recriminazioni del dopo, in attesa della data del conclave, c’è il senso di quel che ha messo in moto la “fatal Verona”, il campo dove il centrodestra ha perso lo scudetto già vinto. Fino a oggi il meccanismo era, in sostanza, che ognuno faceva un po’ come voleva – al governo, all’opposizione, sì vax, no vax, eccetera – ma al dunque ci si metteva insieme e si salvavano capre e cavoli. Il meccanismo si è inceppato. La verità è che si era inceppato anche prima (vedi Roma e Milano), cioè da quando è nato il governo Draghi ma, adesso che l’orologio della politica è tarato sulle prossime politiche, non si può più far finta di non vedere.
E la questione non è solo di rapporti personali, piuttosto logori e resi ancora più logori dai pettegolezzi delle rispettive corti. La questione è politica e ruota tutta attorno a un non detto, che si chiama Palazzo Chigi. Così come è saltato lo schema “litighiamo ma poi proviamo a vincere”, è saltata quella regola un po’ bislacca del “chi arriva primo fa il premier”, anche se, guardandosi negli occhi, i nostri ancora non se lo dicono. Però il Cavaliere ha cominciato a sussurrare, ovviamente pensando a sé, che un leader non è quello che prende più voti, ma colui chi è più generoso e inclusivo. Salvini, piuttosto che intronare Giorgia, si farebbe ardere vivo e, anche lui pensando a sé, vaneggia su grandi rimonte se solo gli lasciassero le mani libere di stare all’opposizione, impuntando tutti i suoi mali al governo Draghi. Nella calura estiva c’è pure chi prende sul serio la sua minaccia di sfracelli a Pontida.
Lei, Giorgia, ci mette del suo. E non fa nulla per costruire politicamente l’eventualità, indossando i panni del federatore attento al destino di una coalizione che dovrebbe portarla al governo: identità, progetto, assetto. O sparigliare, pensando magari a un Papa straniero. In fondo ci sono elementi di verità in quel che le rimproverano gli altri: la postura un po’ arrogante di chi, da Michetti a Sboarina, preferisce perdere con qualcuno dei suoi piuttosto che vincere rinunciando a qualcosa e non perde occasione per accendere poi fuochi, anche quando non serve, imputando agli altri il tradimento degli impegni presi.
E infatti il primo punto che vuole discutere nel prossimo vertice, quando sarà, è, udite udite, la candidatura di Nello Musumeci. Ci sarebbe da chiarire tutto, nel centrodestra: la collocazione internazionale tra Russia e America, la postura che avrebbe l’alleanza in Europa, che atteggiamento tenere nei confronti di Mario Draghi, un progetto per l’Italia in vista del 2023, chi guiderebbe e con quale squadra. Questioni di una qualche importanza per un elettorato disorientato che, in parte si è rifugiato nell’astensionismo. E questioni di una qualche rilevanza per chi, legittimamente, pensa in grande anche per sé. Nulla di tutto questo, almeno per ora: la priorità è innanzitutto Musumeci, cui la leader di Fdi non vuole rinunciare assolutamente se non a prezzo di salatissime contropartite.
Avanti così, la sensazione è che Palazzo Chigi non lo vedrà neanche col binocolo. Razionalità politica vuole che, anche in anni bislacchi come gli attuali, senza un minimo di progetto non si va da nessuna parte. Finché il motore gira attorno alla competizione tra una leader annebbiata dalla sindrome di alta quota e uno appannato dalla sindrome del declino che vorrebbe recuperare quota all’opposizione, il rischio che si impalli è concreto. Chi le vuole bene infatti la invita a uno straccio di iniziativa, come Guido Crosetto che suggerisce una operazione modello Pdl: come Berlusconi aggregò la destra, lei potrebbe offrire un contenitore più largo alla classe dirigente di Forza Italia, ai moderati sparsi, a un centrodestra diffuso che non si riconosce nelle sigle attuali. O chi le suggerisce una postura da leader della coalizione nell’assetto attuale, che implica anche un ammorbidimento con Salvini, perché più punti al suo sgretolamento più diventa difficile farci un patto politico, come ovvio.
Il problema è che Meloni proprio non ce l’ha nelle corde una cultura maggioritaria, per cui alla fine tutto si riduce a una questione di fedeltà, di unità intesa come disciplina, di contratti come il patto anti-inciucio, ignara del fatto che, qualora fosse, Mattarella l’incarico lo dà a chi è in grado di fare un governo, non a chi arriva primo, neanche fosse un premio. Il Re (del centrodestra) è nudo. C’è un’aspirante regina che ha confuso la coalizione con un campo Hobbit.