Alla fine di questa campagna elettorale che si conclude oggi, dopo un mese in apnea, non resteranno i toni tipici della “rissa”; le proposte per risollevare Palermo da una stagione cupa; e nemmeno il dibattito sull’eredità di Leoluca Orlando, che si è risolto in una generale pretesa di discontinuità persino da parte del centrosinistra e di Miceli, che ne raccolgono il testimone. Niente di tutto questo. Resterà la campagna di Marcello Dell’Utri, e del suo tifo per Lagalla; resterà la campagna di Totò Cuffaro, e il suo ritorno in campo a fianco dell’ex rettore; resterà la macchietta politica di Pietro Polizzi, e la sua frase “Potente io, potenti voialtri” riferita a un boss dell’Uditore; rimarrà il suo arresto, che ha fatto piombare Palermo – sulla stampa nazionale e internazionale – indietro di quarant’anni, mentre la politica, affannosamente, apriva un dibattito sulla città del futuro e su come liberarsi dalla criminalità organizzata.
Ma resterà soprattutto la campagna dell’antimafia di cartapesta. A partire dalla poltrona vuota del 23 maggio, destinata a Lagalla: il quale, anziché sottoporsi a linciaggio mediatico, diserta la cerimonia per Capaci. E finisce comunque al centro del linciaggio (tanto le anime belle avevano già deciso di dargli addosso per aver ricevuto l’endorsement di due “condannati”). Resta la retorica vuota della ragazza che al Foro Italico sventola il manifesto “II 12 giugno ripensa al 23 maggio”, come se nelle liste che si presentano alle elezioni ci fossero Lima e Ciancimino. Invece, c’erano solo Polizzi o Lombardo (l’ultimo pescato con le mani nella marmellata, mentre chiedeva il supporto del clan di Brancaccio). La città resta preda dei suoi fantasmi e delle sue paure. E tutt’a un tratto si dimentica dei tram in via Libertà. Dei rifiuti a Bellolampo. Dei bilanci praticamente in rosso. E si dimentica persino di Orlando, del suo governo, della sua amministrazione. Delle sue lezioni di legalità. Del suo feeling con le Ong.
Il Sinnacollando rimane un attore non protagonista di questa campagna (non che si impegni granché per onorarla). Indossa la fascia alla ricerca delle ultime telecamere. Non si appassiona quasi mai al dibattito. Non fornisce assist, e nessuno pretende di averlo al fianco. Tanto meno di mostrarlo. Quarantadue anni nelle istituzioni, e non tornare utile. Anche l’antimafia chiodata degli inizi, quella che “il sospetto è l’anticamera della verità”, quella delle liti con Sciascia e con Falcone, rimane sopraffatta dall’antimafia del giorno dopo. Quella che si oppone alla redenzione. Quella che vorrebbe prigionieri a vita (per dirla con Victor Hugo, fra le citazioni più abusate da Cuffaro), ma che tuttavia è costretta sbattere sull’ex governatore, che presenta la DC in una sala affollata come non mai.
Il professionista dell’antimafia non è più Orlando. E’ l’ex iena Pif. Che dal palco del Foro Italico, nel giorno di Capaci, prova a far calare la vergogna su una campagna ritenuta troppo ambigua: “Se non si vergogna a venire qui insieme al suo alleato Totò Cuffaro – è il messaggio “solenne” recapitato a Roberto Lagalla, durante un’iniziativa di Repubblica, alla vigilia del 23 maggio -, riceverà un enorme, sentito: vaffanculo. Non lo dico io, ma credo ci sia questo rischio. Invece di venire qua, vada a Gibilmanna con il suo amichetto Totò Cuffaro, portate i cannoli e vi divertite”. L’antimafia ridotta ad avanspettacolo. Recitata a memoria. Per condannare, ma soprattutto per umiliare.
La campagna elettorale di Palermo, che per fortuna si chiude oggi, non è stata una disputa sui temi. Ma sugli “amici”. Sono indegni quelli di Pietro Polizzi, un saltimbanco un po’ troppo audace, che la Procura smaschera a pochi giorni dalle elezioni. In una conversazione dello scorso 10 maggio, intercettata, promette sostegno ad Agostino Sansone, protettore (insieme al fratello) di Totò Riina durante l’ultima fase della sua latitanza, in cambio di voti. Di fronte al Gip sostiene che stava millantando. Ma è troppo tardi. Polizzi diventa l’emblema di una politica marcia, che non sa scegliersi la classe dirigente. Costringe il suo partito, Forza Italia, ad una clamorosa ritirata. Diventa l’appiglio dei leader nazionali – Conte e Letta su tutti – che, non sapendo che dire sugli ultimi dieci anni di amministrazione, vengono a Palermo per distribuire pillole di moralità e proporre una difesa a oltranza dei valori: uno su tutti, la dignità garantita dal reddito di cittadinanza.
La campagna elettorale è anche questa: ricerca del consenso attraverso la conferma, e l’esaltazione, del sussidio che percepiscono 65 mila famiglie. Uno strumento che combatte la povertà, ma non sposta di un’unghia il benessere sociale. Anzi, determina la piaga del divanismo e complica la vita degli imprenditori. Diventa metadone, per dirla con la Meloni. Alimenta il lavoro nero, per citare Salvini. Non sconfigge la piaga della criminalità. Eppure il Reddito è cosa buona e giusta: dire il contrario (come osa fare Licia Ronzulli, durante un evento pubblico) fa arrossire persino il centrodestra, con Lagalla che prova subito a ricucire: “E’ una conquista civile che va migliorata”. D’altronde bisogna sempre dire ciò che la gente vuole sentire. Comprese le verità parziali e monche. Altrimenti sono voti che si perdono.
La gente di Palermo, però, avrebbe voluto sentire anche qualcos’altro. Sulle periferie. Sul lavoro (e non solo sull’assistenzialismo). Sulla viabilità e sul traffico. Sui cantieri infiniti. Sull’invasione dei rifiuti. Sulla dignità dei vivi e dei morti, visto che mille bare rimangono insepolte ai Rotoli. La gente aspettava una riflessione onesta sugli ultimi dieci anni di Orlando, sugli elementi (effettivi) di discontinuità, sulle singole proposte per rimpiazzare un personaggio benvoluto (da alcuni) e ingombrante (per altri). Avrebbe voluto sentire una parola sulla città del futuro. Invece ha dovuto ripiegare sul passato. Sui temi triti e ritriti della mafia e dell’antimafia. Su Dell’Utri, che se la gode in panciolle dall’Hotel delle Palme; e su Cuffaro, che ha pagato le proprie colpe ma, secondo alcuni, non avrebbe espiato abbastanza. Per fortuna è finita. Davvero.