Roberto Lagalla e Maurizio Croce: sono loro, questo weekend, a difendere il centrodestra dall’assalto del ‘campo largo’ con Pd e Cinque Stelle. A Palermo e Messina si giocano due mani importanti in vista del prossimo autunno, quando è in programma la sfida delle Regionali. Ma il centrodestra di oggi, probabilmente, non sarà uguale a quello di domani. Musumeci, infatti, con la nomina in giunta di Alessandro Aricò e il solito atteggiamento prevaricatore, ha finito per incrinare i rapporti con gli alleati, che si sono detti contrari – lo ribadiranno nei prossimi giorni con un documento ufficiale – al bis del governatore in carica, definito “un uomo solo al comando”.
Lega e Forza Italia non sono più disponibili a fare sconti. E’ accaduto a Palermo, quando, dopo aver bruciato una marea di aspiranti e a seguito di un tavolo con tutti i partiti della coalizione, hanno deciso per il passo di lato, facendo ritirare Francesco Cascio e convergendo su una figura di garanzia, oltre che un ottimo candidato di sintesi, come Roberto Lagalla. Gianfranco Miccichè ha ammesso che “non è il massimo della felicità”, ma ha fatto buon viso a cattivo gioco, regalando il primo tempo a FdI, tra i primi a puntare sull’ex rettore (ottenendo, in cambio, un rinvio della questione Musumeci). Il centrodestra palermitano, sulla carta, è una macchina da guerra, e non basterà l’arresto di tale Polizzi, colluso con la mafia e candidato nelle liste di FI, per interrompere la corsa che potrebbe concludersi al primo turno.
Lo schema di Palermo è quello classico, con tutti dentro. Attorno alla figura moderata di Lagalla, in quota Udc, si stagliano le componenti della coalizione originaria: dai leghisti in versione moderata, che oggi ripartono dallo slogan ‘Prima l’Italia’; passando per Forza Italia, che costituisce il baricentro della coalizione anche a Roma; inoltre, c’è grande curiosità per i numeri del nuovo ‘listone’ composto da Fratelli d’Italia e Diventerà Bellissima, che dopo il corteggiamento sfrenato di Musumeci e Razza, si sono federati lo scorso gennaio (la Meloni aspira a un grande risultato per blindare palazzo d’Orleans); ma c’è anche la galassia centrista, che fa perno sull’asse fra i Popolari di Saverio Romano e gli Autonomisti di Raffaele Lombardo (in un’unica lista, come alla Regione nel 2017). E c’è persino l’aggiunta di Totò Cuffaro, che ha lanciato la provocazione della soglia di sbarramento: sotto il 5% si ritirerà dalla politica, portando con sé ciò che rimane della riabilitata DC. A completare il quadro rimangono l’Udc, la lista di Totò Lentini, quella camuffata dei renziani, oltre ai ‘Moderati per Lagalla’ che racchiudono i vari cespuglietti di centro.
Lagalla ha il doppio delle liste rispetto a Miceli: tanto basta per immaginare una goleada. Anche se l’assetto di questo centrodestra, oggi più che mai, è dettato dalla ‘convenienza elettorale’, e non dalla fiducia reciproca. Ma c’è una città da conquistare: di sacrifici, rinunce, passi avanti e passi indietro, si parlerà nelle prossime campagne elettorali.
A Messina la situazione è diversa. Lo è sempre stata grazie all’iniziativa di Cateno De Luca, il sindaco uscente che ha deciso di dimettersi per candidarsi a presidente della Regione. Si è dimesso, Scateno, ma non ha mai rinunciato a conservare il potere acquisito all’interno di palazzo Zanca, dove ora vorrebbe insidiare Federico Basile, 44 anni, ex dirigente generale del Comune. E continuare il suo processo di rinnovamento e stabilizzazione dei conti per interposta persona. Prova a farlo, ovviamente, mettendosi contro tutti. Nella coalizione di Basile, composta da nove liste (tra cui ‘Mai più baracche’, capitanata dall’ex Iena Ismaele La Vardera), spicca quella di Prima l’Italia. Anche se dietro la scelta di Matteo Salvini e Nino Germanà, che hanno ceduto alla proposta e alle lusinghe di De Luca, si cela il malumore di tanti rappresentanti leghisti, tra cui il capogruppo all’Ars Antonio Catalfamo, che hanno scelto di rimanere fuori. Il simbolo è in prestito, senza diritto di riscatto.
Anche perché, nella città dello Stretto, il centrodestra sostiene qualcun altro: cioè Maurizio Croce, già assessore nel governo Crocetta (di centrosinistra), direttore dell’Ufficio regionale contro il dissesto idrogeologico, e ora centravanti di uno schieramento che schiera ai nastri di partenza una lista capeggiata da Francantonio Genovese: si chiama Messina Ora (evidente il richiamo a Sicilia Ora, la quarta gamba del centrodestra che il figlio di Francantonio, Luigi, aveva schierato all’Ars per dare manforte a Musumeci). La presenza della dinastia dei Genovese, da sempre ras delle preferenze in città (nonostante gli scandali giudiziari) rende il centrodestra fortemente diverso, più legato a dinamiche locali che non regionali. L’unica lista a spiccare tra quelle a sostegno di Croce sarà, probabilmente, quella della Meloni. Le altre rischiano di finire schiacciate dall’indifferenza. Relegate a un ruolo marginale.
Forse è Messina, più di Palermo, a rappresentare un modello per il prossimo centrodestra alla Regione. L’autorità di Musumeci, questa volta, rischia davvero di aver compromesso l’unità fra i partiti. Micciché continua a ripetere che ricucire è possibile purché la Meloni s’affretti a cambiare cavallo; Minardo, segretario della Lega, per la prima volta è andato con le dita negli occhi del governatore, evidenziando la sua “autoreferenzialità”. Anche i centristi, su tutti Raffaele Lombardo, non hanno alcuna voglia di tollerare altri soprusi.
Del presidente che decide da solo, che licenzia e nomina assessori senza consultare i partiti, che si accanisce su deputati e parlamento, che non convoca riunioni di maggioranza da tempo immemore, che distribuisce mance ai comuni in piena autonomia, il centrodestra è stanco. E lo stesso Musumeci, nelle ultime settimane, ha ammesso che il perimetro della sua candidatura, per il momento, comprende pochi reduci di questa stagione: Diventerà Bellissima, Fratelli d’Italia, Attiva Sicilia, il cerchio magico degli assessori. Forse l’Udc. Gli altri non solo rimangono fuori, ma si allontanano progressivamente. Ecco perché ai due centrodestra di Palermo e Messina, se ne potrebbe aggiungere un terzo. Quello diviso in due tronconi alla Regione. Un modo perfetto, forse l’unico, per consegnare la Sicilia a Pd e Cinque Stelle.