E’ una questione che riguarda da vicino l’ex rettore Roberto Lagalla, candidato a sindaco di Palermo del centrodestra. Per questo se ne parla. Ma l’illegittimità della nomina di Antonio Valenti a capo del dipartimento Istruzione, decisa da una sentenza del Tribunale del Lavoro di Palermo, suona come l’ennesima bocciatura nei confronti dell’operato del governo Musumeci, che non ha ancora capito come selezionare i dirigenti generali (o meglio: lo sa perfettamente, ma ha deciso di “forzare” le regole, esattamente come i precedenti). Valenti fu scelto da Lagalla, e nominato dalla giunta, il 14 giugno 2020. A distanza di quasi due anni, però, la Regione dovrà “ripetere la procedura per l’affidamento dell’incarico, limitando la valutazione comparativa agli aspiranti appartenenti almeno alla seconda fascia dirigenziale”.
Valenti fa parte della terza. Ossia quella categoria off-topic, che non esiste nel resto d’Italia, da cui Palazzo d’Orleans pesca a ogni giro di nomine perché non ha la possibilità di rivolgersi altrove: la prima non esiste, la seconda è limitata a pochissimi “sopravvissuti”. Tra cui Cono Antonio Catrini, che ha presentato ricorso contro la nomina di Valenti: “Secondo la normativa e la consolidata giurisprudenza in materia – sostiene la difesa di Catrini – l’incarico in questione poteva essere conferito solo in favore dei dirigenti di prima e seconda fascia. L’atto di conferimento non reca alcuna motivazione delle ragioni per assegnarlo al dirigente di terza fascia, ignorando le professionalità di qualifica superiore”. E mentre il prof. Lagalla, in altre faccende affaccendato, liquida la situazione spiegando che Valenti era “l’unico dirigente di terza fascia che, per più di cinque anni, aveva già ricoperto la medesima funzione di direttore generale in una amministrazione dello Stato”, la patata bollente torna in mano alla Regione. Che ormai, data la scadenza del mandato ormai imminente, ne uscirà intonsa.
L’ultimo caso, prima del dipartimento Istruzione, era nato alle Infrastrutture. Un anno fa la Corte d’Appello di Palermo (sezione Lavoro) aveva bocciato il ricorso presentato dall’Amministrazione regionale avverso la sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale del Lavoro nella causa intentata da Alberto Pulizzi, dirigente di seconda fascia, contro la nomina di due dirigenti di terza (Fulvio Bellomo e Vincenzo Palizzolo) nelle posizioni di dirigenti generali. In primo grado, la giudice aveva stabilito che l’incarico in questione poteva essere conferito solo in favore dei dirigenti di prima e seconda fascia (come previsto dalla legislazione nazionale), e non di “terza”. Un concetto ribadito anche in Appello. La Regione siciliana, per la sua “insistenza”, è stata condannata a pagare le spese di lite per 3.300 euro. Contestualmente, non ha mai fatto nulla per “sanare” una situazione che rischia di rappresentare, qualora verrà appurata una condotta illecita, un danno all’Erario di non poco conto.
Nella sentenza di primo grado della vicenda Monterosso, che ha portato alla condanna degli ex governatori Lombardo e Crocetta perché “le retribuzioni corrisposte alla dott.ssa Monterosso, illegittimamente nominata, costituiscono danno erariale poiché erogate sine causa”, la Corte dei Conti, citando un’altra sentenza del Tar Sicilia (anno 2014) ha riferito che “l’incarico di dirigente generale non può essere attribuito ai dirigenti di terza fascia”. “In buona sostanza – spiegavano i magistrati contabili – secondo l’articolo 11, comma 4 e 5 della legge regionale n.20 del 2003, l’incarico apicale “è conferito” a dirigenti di prima fascia, nonché a soggetti cd. “esterni” (entro il più elevato limite del 30 per cento, introdotto dal comma 7 dello stesso articolo) e “può essere, altresì, conferito” a dirigenti di seconda fascia in possesso dei requisiti ivi previsti”.
Per farla breve, a capo di un dipartimento – il ruolo più alto e meglio retribuito della pianta organica – possono andare i dirigenti di prima fascia, seguendo una procedura di conferimento ordinaria, o in alternativa dirigenti di seconda fascia o “esterni”, secondo un modello di selezione straordinaria. La Corte dei Conti stabilisce, inoltre, che “le predette modalità di conferimento dell’incarico apicale non sono, tuttavia, collocate sullo stesso piano, nel senso che l’autorità affidante (nel caso di specie “il Presidente della Regione, previa delibera della giunta regionale, su proposta dell’assessore competente”) può instradare il procedimento decisionale nel corridoio che conduce alla nomina di soggetti cd. “esterni” solo a valle di un motivato accertamento dell’insussistenza, all’interno dell’amministrazione, di professionalità adatte allo scopo”.
In mancanza di una proposta di legge che regoli l’accesso alle posizioni apicali – più volte richiesta dal parlamentare regionale del Pd, Nello Dipasquale – o di una procedura per consentire ai dirigenti di “terza fascia” di aspirare al vertice dei dipartimenti, i presidenti della Regione e i governi si sono comportati tutti allo stesso modo: cioè, hanno chiuso un occhio. Sulla vicenda, in un arco temporale ormai lunghissimo, si era pronunciato il Commissario dello Stato che, nel 2003, aveva impugnato una parte dell’articolo 11 delle legge n.20 del 2003, in cui era prevista la possibilità di conferire gli incarichi dirigenziali generali anche “a dirigenti dell’amministrazione regionale appartenenti alle altre due fasce” oltre la prima, perché in violazione dell’articolo 97 della Costituzione (avrebbe compromesso, cioè, il buon andamento della pubblica amministrazione).
Sentenza confermata l’anno dopo dalla Corte Costituzionale, che accolse la questione di legittimità costituzionale sollevata dal commissario dello Stato, pronunciandosi in maniera limpida: “Considerato che, dopo la proposizione del ricorso, la legge approvata dall’Assemblea regionale siciliana il 13 novembre 2003 è stata promulgata (legge regionale 3 dicembre 2003, n. 20) con omissione delle parti impugnate, sicché risulta preclusa la possibilità che sia conferita efficacia alle disposizioni censurate”, allora “dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso in epigrafe”. I dirigenti di terza fascia, che un parere del Cga aveva equiparato a dei funzionari, non potrebbero ambire a incarichi dirigenziali. E i verdetti di tutti i tribunali – dalla Corte d’appello di Palermo ai Giudici del Lavoro – convergono al medesimo finale. La politica conosce perfettamente l’entità del problema, ma non s’è mai impegnata a ricucire la ferita. Un classico siciliano.
L’accordo Stato-Regione del gennaio 2021, che è servito a Musumeci e Armao per rateizzare in dieci anni, anziché in tre, l’enorme disavanzo, poneva come priorità l’adeguamento alle norme sulla dirigenza pubblica, con l’impegno di “eliminare le distinzioni tra la prima e la seconda fascia dei dirigenti di ruolo, superare la terza fascia dirigenziale avente natura transitoria con l’inquadramento nell’istituenda unica fascia dirigenziale, agli esiti di una procedura selettiva per titoli ed esami (…) con espresso divieto a regime di inquadramenti automatici o per mezzo di concorsi riservati per l’accesso alla dirigenza”. Ma in questo arco di tempo nulla si è mosso. Il recepimento della normativa nazionale è rimasto sulla carta. La riforma della Pubblica amministrazione, che Musumeci aveva promesso ai tempi della campagna elettorale, non è mai stata discussa. Ora, in piena campagna elettorale, è Lagalla a pagare il prezzo di una vergogna che si trascina da un ventennio. Come se già non gli bastassero gli ingombranti Cuffaro e Dell’Utri.