L’ultimo schiaffo rifilato da Musumeci al parlamento siciliano è la proroga dell’incarico da direttore generale dell’Irsap all’ingegner Gaetano Collura che, in barba alla legge “blocca nomine” approvata dall’Assemblea regionale lo scorso 16 marzo, è stato riconfermato in plancia di comando fino al 2026. E’ quanto stabilito da una delibera del 17 maggio, che fa leva su un parere reso “dall’Ufficio legislativo e legale della Presidenza della Regione Siciliana, prot. n. 1034/2022”, secondo cui l’incarico in oggetto “non rientra nel divieto (…) della legge regionale n. 3/2022 (cosiddetto “blocca nomine”), non essendo qualificato come organo dell’Ente in parola”.

Tecnicismi che, però, rischiano di rappresentare un precedente insopportabile. Specie per l’Ars. Che quel provvedimento, utile a congelare le nome negli enti e nelle società partecipate, ma anche nelle Asp, “nei 180 giorni antecedenti la scadenza naturale della legislatura” (e, comunque, “a decorrere dalla data d’approvazione della presente legge), l’aveva votata praticamente all’unanimità. Persino Diventerà Bellissima, il movimento del presidente della Regione, si era adeguato alle decisioni del parlamento, legittimandone il merito. Ma a che serve legittimare delle scelte se, poi, vengono puntualmente disattese? Un primo tentativo di forzare il blocco si era già palesato durante l’approvazione della Legge Finanziaria, quando il governo aveva tentato una manovra audace all’articolo 3: “Potenziamento dell’attività di verifica su enti vigilati e società partecipate dell’amministrazione regionale”.

Il comma 2 prevedeva che “le verifiche richieste dall’attività di controllo esercitata da parte della Ragioneria generale della Regione nei confronti degli enti, delle aziende vigilate e delle società partecipate dell’amministrazione regionale, l’attività ispettiva e di verifica giuridico-contabile può essere espletata avvalendosi, oltre che dei dirigenti o funzionari regionali in servizio iscritti all’albo regionale degli ispettori contabili, anche di avvocati, commercialisti, aziendalisti, revisori dei conti, magistrati e avvocati dello Stato in quiescenza, di dirigenti o funzionari statali e regionali in quiescenza, di comprovata esperienza in materia contabile o amministrativa”. “L’articolo – era stato il commento di Nuccio Di Paola, capogruppo del M5s – di fatto avrebbe riaperto le porte alle nomine che avevamo stoppato con tanto di legge a metà marzo”.

Quella volta andò male. Oggi, invece, Musumeci potrebbe spuntarla. Anche se la paternità della decisione, si intuisce fra le righe della delibera, è attribuita all’assessore alle Attività produttive, Mimmo Turano. L’ing. Collura, ormai in carica dalla fase finale del governo Crocetta, si è molto avvicinato all’Udc. Anche se la sua conferma, che gode di “un accentuato carattere di fiduciarietà”, “è motivata dal possesso dell’idoneità dei requisiti, per avere già ricoperto l’incarico di Direttore generale, e degli adeguati titoli con particolare riferimento, anche, alla luce della recente riforma recata dalla legge regionale n. 33/2021 che ha ampliato le funzioni dell’I.R.S.A.P. rendendolo più rispondente ai fabbisogni del tessuto produttivo regionale, nonché per l’importante ruolo ad esso attribuito di intervenire nel complesso processo di liquidazione dei Consorzi ASI accelerandone la definizione”. Il parere dell’Ufficio legale è la ciliegina sulla torta, anche se il Pd annuncia un esposto in procura.

Al di là del merito e delle spiccate doti professionali dell’ingegnere, ciò che colpisce è l’ennesimo tentativo di prevaricazione nei confronti del Parlamento. Quella che Anthony Barbagallo, segretario regionale dem, definisce in un intervento su Repubblica “impudenza e spregiudicatezza” da parte della giunta. Non è la prima volta che il governatore impone i suoi metodi sull’Assemblea, ormai ridotta a un patetico ornamento. Giusto qualche mese fa, Musumeci decise di sorvolare rispetto alla mozione di revoca, approvata dall’aula, riguardante l’ing. Tuccio D’Urso, soggetto attuatore per la struttura commissariale anti-Covid, che aveva accusato di brogli alcuni deputati durante l’approvazione di una norma che gli avrebbe permesso di rimanere direttore generale fino a 70 anni. “È spiacevole constatare – scrisse nella mozione Tommaso Calderone, capogruppo di Forza Italia – che nonostante il ruolo che ricopre, si permetta di oltraggiare il Parlamento siciliano, mancandogli di rispetto con attacchi volgari e sconsiderati tramite i propri canali social. Il suo modo di agire lede il rapporto di fiducia che deve esistere tra le parti”.

La letterina di scuse recapitata da D’Urso alla vigilia della discussione parlamentare e “il contesto emergenziale” bastarono a Musumeci per fermarsi a un richiamo ufficiale. “La revoca dell’incarico conferitole”, infatti “avrebbe drastiche conseguenze sulla celere prosecuzione dell’attività affidata e, quindi, sulla concreta ultimazione di decine di cantieri nelle strutture sanitarie dell’Isola”. Nella missiva, il presidente ha invitato D’Urso ad “evitare ogni esternazione che non sia strettamente connessa alla comunicazione delle attività emergenziali. Le conseguenze di un diverso comportamento porterebbero, per quanto in mio potere – scrisse – ad una non auspicata ma necessaria revoca dell’incarico come peraltro richiestomi, in modo condivisibile, con atto formale dallo stesso Parlamento”. Musumeci, in pratica, diede ragione al parlamento ma poi se ne infischiò. D’Urso, dopo un periodo trascorso lontano dai social, è tornato più garibaldino che mai: tra le sue facoltà, c’è anche la richiesta di rettifica ai giornali per aver pubblicato notizie riguardanti la capacità di spesa dei fondi europei da parte del governo che lui, professionista incaricato dal governo, non condivide. Segno dei tempi.

Ma i rapporti inquinati fra esecutivo e parlamento sono venuti fuori a più riprese. Ad esempio, sulla ricognizione operata dall’assessorato alla Salute relativamente alla realizzazione di ospedali e case della comunità, previsti dalla missione 6 del Pnrr, da cui l’Ars inizialmente venne esclusa. O meglio, fu tirata in ballo solo da un messaggino di Marco Intravaia ai sindaci beneficiari, quando il segretario particolare di Musumeci, disse di rivolgersi a Miccichè & Co. se qualcuno degli interventi previsti non si fosse concretizzato. Un’uscita che fece imbufalire il presidente dell’Assemblea: “Le pare il caso che dalla segreteria del presidente parta un Whatsapp del genere? Senza consultare nessuno? E quel finale che cosa vuole insinuare? Che Micciché può far saltare tutto? Qualche anno fa da un messaggio del genere sarebbe partita un’inchiesta per mafia”.

Gli scontri fra Musumeci e Micicché non sono mai mancati. Così come quelli fra Musumeci – che è uscito indenne da una mozione di sfiducia (una ha riguardato anche il suo delfino, Ruggero Razza) – e membri del parlamento. A vario titolo. Il 29 aprile 2020, primo giorno di dibattito sulla Finanziaria, di fronte alla richiesta di Sammartino di utilizzo del voto segreto, il presidente della Regione la fece fuori dal vaso: “Lei dovrebbe vergognarsi. In un momento in cui tutta la comunità siciliana si aspetta chiarezza da questo parlamento, lei chiede di votare di nascosto. Si vergogni lei e chi asseconda la sua richiesta. Io abbandono l’aula, è un fatto etico al quale non posso assolutamente aderire. Mi auguro che di lei e di quelli come lei si occupino altri palazzi”. Vale a dire la magistratura. Musumeci, tacciato di “squadrismo” da Italia Viva (all’epoca il partito di Mr. Preferenze), abbandonò l’aula in segno di protesta. Come avvenuto qualche mese prima – era fine novembre – dopo la bocciatura dell’articolo 1 della riforma dei rifiuti. La scarsa tolleranza per i ‘franchi tiratori’ della maggioranza è emersa in tutto il suo sdegno a gennaio 2022, nel giorno della votazione dei grandi elettori per il Quirinale. Quando il presidente della Regione in carica finì terzo, perché indigesto a un pezzo della sua maggioranza: “Sono deputati a me lontani, che in passato mi hanno fatto richieste irricevibili a cui ho detto di no. O è gente con cui, per una questione di igiene, non ho mai voluto avere niente a che fare”. Degli “scappati di casa”. “Disertori”. Amen.

E’ questo il livello del confronto in questa legislatura. Dove più volte, a incrociare le spade con Musumeci, è stato il presidente della commissione Antimafia, Claudio Fava: “Probabilmente Musumeci pensa – come il duce – che questo Parlamento sia solo un’aula sorda e grigia da trasformare in un bivacco di manipoli – disse in uno dei suoi interventi, seguito al dibattito sulla riforma dei rifiuti -: ha sbagliato secolo, e per fortuna non dispone di alcun manipolo. E’ grave che all’inettitudine di questo governo si sommi ormai un disprezzo così profondo verso le istituzioni parlamentari”. “Come quelli che non amano i processi partecipativi – spiegò Antonello Cracolici, del Pd, in alcune interviste successive -, anche Musumeci disprezza il parlamento e lo reputa un luogo in cui si perde tempo. Come nel Ventennio”. Talvolta il governatore ha provato a dissimulare: “Verso il Parlamento ho sempre avuto un atteggiamento di grande rispetto che continuo ad avere pure ricevendo calci negli stinchi. Ma bisogna avere pazienza”, disse nell’ottobre 2019, dopo che Micciché gli ricordò di non poter contare sui voti dell’opposizione, ma di dover rinsaldare le fila della maggioranza. Non è mai accaduto. Durante l’ultima sessione Finanziaria, il colonnello Nello ha preferito non farsi vedere. Era l’unico modo per mandare in porto una legge vuota e inutile.