Il torto di questo governo è ricadere, da sempre, nelle sue contraddizioni. L’aumento in busta paga per dirigenti e personale del comparto, previsto dalla Finanziaria 2022, lo dimostra. Per i primi, massima espressione della burocrazia regionale, si tratta di un regalino di fine legislatura da 200 euro a testa. Tecnicamente, si tratta di recepire una norma contenuta nella Legge di Bilancio dello Stato in materia di incremento dei trattamenti economici accessori del personale delle pubbliche amministrazioni, nel rispetto del limite massimo pari allo 0,22 per cento del monte salari 2018 e dei contenuti previsti dal punto 2, lettera e) dell’“Accordo Stato e Regione Siciliana per il ripiano decennale del disavanzo” sottoscritto il 14 gennaio 2021. In sostanza, viene liberato poco più di un milione e mezzo per andare incontro alle aspettative dei vituperati dipendenti regionali, che Musumeci, in passato, ha definito “grattapancisti” e “fannulloni”. Come è stato possibile? Grazie alla soppressione di 394 strutture dirigenziali – così spiega il governo – che ha fruttato un risparmio di 3,8 milioni; e alla riduzione di 171 postazioni in dotazione organica (che ha liberato 544 mila euro).
Ma torniamo con la cronaca a luglio 2020. ‘Le giornate dell’energia’ a Catania segnano il punto di rottura fra Musumeci e i regionali: “L’80% di loro – disse il presidente – si gratta la pancia dalla mattina alla sera. Ma non ditelo ai sindacati… Ora vogliono stare ancora a casa per fare il ‘lavoro agile’. Ma se non lavorate in ufficio, come pensate di essere controllati a casa?”. Non si trattava, per la verità, di un insulto isolato. Qualche tempo prima, a un’assemblea di Diventerà Bellissima, il governatore aveva già alzato il tiro: “Se ne prendi uno e pensi di accompagnarlo alla porta, ti trovi i sindacati pronti a difenderlo. Sindacati verso i quali abbiamo tutti rispetto, se la funzione fosse quella originaria, di difendere i diritti del lavoratore e non i diritti dei grattapancia a tradimento”. Un pensiero chiaro, lineare e soprattutto coerente. Che Musumeci ha reiterato in altre occasioni. ‘Vuoi vedere che è arrivato quello che rigira la burocrazia come un calzino?’, hanno pensato tutti.
Si sbagliavano. Da cinque anni, infatti, la riforma della pubblica amministrazione è rimasta chiusa nei cassetti. Nonostante i frequenti inviti, da parte delle opposizioni e persino dei sindacati, a intervenire. Tra l’altro la Regione siciliana convive con un’anomalia tutta nostra: la presenza di dirigenti di terza fascia, che costituiscono la colonna portante degli uffici regionali (nel resto d’Italia non esistono). Un’anomalia evidenziata da un intervento del commissario dello Stato, che nel 2003 impugna l’articolo della legge n.20, in cui era prevista la possibilità di conferire gli incarichi dirigenziali generali anche “a dirigenti dell’amministrazione regionale appartenenti alle altre due fasce” oltre la prima; un provvedimento cui fece seguito una sentenza della Corte Costituzionale, che accoglie la questione di legittimità costituzionale e dichiara “cessata la materia del contendere”. Ma anche numerosi verdetti, dal Tribunale del Lavoro alla Corte d’Appello di Palermo, passando per un parere (poi ritirato) del Cga, che evidenziano l’impossibilità per i dirigenti di terza fascia (equiparati a dei funzionari) di poter ricevere incarichi dirigenziali. Persino l’ultimo accordo Stato-Regionale imponeva alla Sicilia “il recepimento dei principi in materia di dirigenza pubblica”, utile a “semplificare ed efficientare le modalità di attribuzione degli incarichi, eliminare le distinzioni tra la prima e la seconda fascia dei dirigenti di ruolo, superare la terza fascia dirigenziale avente natura transitoria con l’inquadramento nell’istituenda unica fascia dirigenziale, agli esiti di una procedura selettiva per titoli ed esami”. Ma niente di tutto ciò è stato portato a termine.
Al netto delle critiche pubbliche e feroci di Musumeci, rivolte per lo più ai dipendenti e in parte anche ai dirigenti – che in questi anni, e soprattutto durante la pandemia, non sono stati al riparo da scivoloni – nulla si è mosso. Anzi, qualcosa sì. Prima dello scorso Natale, la giunta ha esitato una delibera sulla valutazione della performance 2019, in cui dichiarava che gli uffici della Regione hanno raggiunto oltre il 94% degli obiettivi prefissati a inizio anno. Poi, in fondo a una lunga trattativa, è stato firmato con l’Aran (l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazione) l’accordo sul Ford, il fondo che garantisce straordinari e premi di rendimento nei confronti dei dipendenti. Di fronte all’aumento degli straordinari – da 5,7 a 7,7 milioni – anche i sindacati sono rimasti di stucco: “Ci chiediamo come sia possibile assegnare due milioni in più per gli straordinari – ha scritto la Cisal in una nota – in un periodo in cui tutti sono stati in smart working”. Anche il lavoro agile, per altro, non aveva convinto il governatore, che già nella fase acuta della pandemia (estate 2020) aveva chiesto all’assessore dell’epoca, Bernadette Grasso, di richiamare tutti in ufficio.
Questi pochi esempi confermano l’approccio ondivago di Musumeci rispetto al problema burosauri. Ma c’è dell’altro. Ad esempio, il ritorno in servizio di Maria Letizia Di Liberti a poco più di un anno dall’indagine – nella quale risulta tuttora indagata – sui dati falsi Covid, che mise a soqquadro l’assessorato alla Salute (persino Razza ha ricevuto una notifica di conclusione indagini). Non solo è tornata alla Regione: la Di Liberti è stata nominata direttore generale del dipartimento alla Famiglia, in sostituzione di Rosolino Greco (andato in pensione). Un altro episodio controverso è il ritorno in grande stile dell’ex dirigente all’Energia, Tuccio D’Urso, dopo che l’Ars bocciò una leggina per consentire a chi aveva maturato i requisiti della pensione di rimanere in servizio oltre i 67 anni d’età. D’Urso, però, si è visto spalancare le porte dal Covid: durante la pandemia, infatti, è stato nominato coordinatore della struttura tecnica del commissario delegato per l’emergenza Covid (lo stesso Musumeci) per occuparsi di edilizia ospedaliera. Il presidente l’ha persino salvato da una mozione di revoca partita dal capogruppo di Forza Italia, Tommaso Calderone, per aver oltraggiato “il Parlamento siciliano, mancandogli di rispetto con attacchi volgari e sconsiderati tramite i propri canali social”. Questi sono i dirigenti che a Musumeci piacciono e dei quali non si sarebbe mai privato.
Ma qui il racconto rischia di assumere un’altra piega, quella del cerchio magico. Il punto, però, è un altro: cioè che il governo del fare, con l’ultimo regalino da 1,6 milioni contenuto in Finanziaria, contraddice se stesso. Si sottomette in termini clientelari a dirigenti e dipendenti, che diventano all’improvviso personaggi da coccolare con una mancia. Dopo aver tifato a lungo per la supremazia della politica rispetto alla burocrazia, il governo del fare si è piegato – ancora – come un tappetino. Ha prelevato i burosauri dall’agone delle polemiche e ha provato a trascinarli dalla propria parte. Un meccanismo che si era messo in moto nei mesi scorsi, durante le due kermesse organizzate allo Spasimo e poi alle Ciminiere di Catania. E che, con la campagna elettorale alle porte, non s’è più arrestato.