Cristo si è fermato a Roma. Mentre da più di due mesi incombe, in un crescendo di violenza, dolore e morte, la guerra in Ucraina. Guerra adesso emersa e visibile a tutti con l’ingresso delle truppe russe nel paese, ma latente e misconosciuta per anni. Soprattutto nella regione del Donbass dove l’Ucraina confina con la Russia.
Per dire, già nel 2014 l’ex segretario di stato Usa e premio Nobel per la pace nel 1973 Henry Kissinger, non sospettabile di filo putinismo, aveva avvertito che c’era una vera e propria mina vagante pronta a esplodere sul fronte orientale dell’Europa. “Una saggia politica dovrebbe cercare il modo di favorire l’intesa fra le due parti dell’Ucraina: quella nazionalista e quella russofona. Non il dominio di una fazione sull’altra. Spingere l’Ucraina a far parte della Nato condurrà necessariamente alla guerra”.
La guerra è arrivata. Nel cuore dell’Europa. E Cristo si è fermato a Roma. O almeno così sembra aver deciso al momento il suo sommo rappresentante in questo mondo, Papa Francesco. Che anzi, secondo tradizione, sarebbe proprio “Vicarius Christi” sulla terra, se non avesse derubricato nel 2020 il “vicariato” a mero titolo storico. Con tutte le implicazioni teologiche che ciò comporta e, secondo alcuni, anche le omissioni. Come il nome stesso di Cristo. Ma Bergoglio, si sa, preferisce considerarsi ed essere considerato “Vescovo di Roma”. Lo ha dichiarato subito dopo il Conclave che lo ha eletto nel 2013 e così continua a definirsi.
Fino a poche settimane fa il viaggio di Francesco a Kiev sembrava certo. Lui stesso lo aveva annunciato. “E’ sul tavolo”, aveva risposto ai giornalisti che gli chiedevano se avesse preso in considerazione l’invito, reiterato più e più volte, del presidente dell’Ucraina Zelensky a recarsi sul teatro di guerra. Poi ha cambiato idea.
Già sono imperscrutabili e infinite le vie della diplomazia pontificia, la più antica al mondo e probabilmente anche la più ramificata, figuriamoci le vie dello Spirito Santo che per i credenti illumina l’apostolato e la vita terrena del Sommo Pontefice.
Certo, l’escalation del conflitto in Ucraina con il suo carico di orrore, anche verbale, procede in modo così rapido che si stenta perfino a verificare le notizie, a separare evangelicamente il grano dal loglio, il bene dal male. Perché la narrazione di una guerra è sempre manichea. E’ propaganda. Ma i fatti non sempre corrispondono alle parole o alle immagini. Vanno verificati nel tempo e nello spazio.
Certo, su quel fronte in Europa ci sono gli invasori, cioè i russi. E questa è la premessa. Ci sono gli invasi, che sono gli ucraini. Ma anche invasati di ogni specie. Se n’è accorto Marco Travaglio. Come dargli torto, per una volta? Perché non sono solo le scelte politiche o militari ad essere in discussione. E’ l’eccesso di parole ostili, di epiteti rivolti a Putin, che è l’invasore ma anche il presidente della Federazione Russa, di parole usate a sproposito come il termine “genocidio” per definire la tragedia del popolo ucraino. Termine che, infatti, ha sortito l’effetto di irritare gli alleati israeliani e non solo.
E’ il tentativo di cancellare un patrimonio di lettere e arti, di sport perfino, che è fondamento della cultura occidentale. E’ la condanna alla “damnatio memoriae” applicata a un intero popolo e a un intero paese. Un uso distorto del “politicamente corretto”. Sciocco e iniquo quando riguarda intellettuali, artisti, atleti vivi. Soltanto ridicolo quando riguarda musicisti o letterati del passato. Come nel caso-simbolo di Dostoevskij, il primo a essere messo al bando in Italia. Non degno di essere protagonista di un corso di letteratura all’Università Bicocca, nonostante sia stato tra i massimi scrittori della Russia zarista, autore di “Demoni” e “L’idiota”. Attenzione ai titoli e ai nomi. Perché il caso vuole che risultino tutti di compiuta attualità per prevalenza e diffusione.
Bergoglio, da buon gesuita, avrà soppesato questa incontinenza del linguaggio che spinge, soffia sul fuoco della guerra. Da pastore di anime avrà pensato come porvi rimedio. Chissà. Magari avrà considerato la regola del suo ordine, la Compagnia di Gesù, fondata in Spagna nel XVI secolo da Ignazio di Loyola cavaliere in armi, prima di prendere i voti e diventare Santo. La dodicesima regola: “La parola sorge dal silenzio, e al silenzio ritorna”. Magari avrà riflettuto sull’insegnamento dell’illustre confratello, Baltasar Gracián, gesuita spagnolo del Siglo de oro, che predicava: “E’ meglio peccare per difetto che per eccesso”. E ha deciso di fermarsi a Roma, nella roccaforte della cristianità. Intervenendo sempre, da due mesi a questa parte, in ogni occasione pubblica, sulla necessità della pace in Ucraina. Ma a modo suo.
Adesso il punto sul conflitto lo ha fatto rilasciando una lunga intervista a un quotidiano della città dove è nato, è vissuto ed è diventato Vescovo. E’ La Nación, che si pubblica a Buenos Aires da più di 150 anni. “Sono disposto a tutto. Tutto. Pur di porre freno alla guerra” ha dichiarato in premessa all’intervistatore Joaquín Morales Solá con cui si conosce da trent’anni.
Quando il giornalista argentino gli ricorda, quasi a parziale giustificazione russa, la richiesta dell’Ucraina di entrare nella Nato come un pericolo per la sicurezza della confinante Federazione Russa, Francesco non entra nel merito. Anzi. Specifica che le guerre, tutte le guerre, “sono anacronistiche in questo mondo e a questo livello di civiltà” e che quando ha baciato in pubblico la bandiera ucraina lo ha fatto come “gesto di solidarietà per i morti, per i profughi, per le famiglie”.
Bergoglio spiega perché è saltata l’ipotesi di recarsi in Ucraina. “A che servirebbe se il Papa andasse a Kiev e la guerra continuasse tale e quale il giorno dopo? Non posso fare nulla che metta a rischio obiettivi superiori, come la fine del conflitto, una tregua o almeno un corridoio umanitario”. Poi c’è la diplomazia vaticana che non dorme mai. “Nunca descansa”, dice. Anche se non può entrare nei dettagli per non inficiare il lavoro diplomatico nel mediare tra le parti e tentare di risolvere la crisi. Ha il conforto di due cardinali che sperano che “ai primi di maggio possa avere termine la guerra in gran parte, se non tutta”. Ma non ha nessuna certezza.
In tal senso Bergoglio chiarisce che il fatto di recarsi da solo all’Ambasciata di Russia presso la Santa Sede a fine febbraio, subito dopo l’ingresso delle truppe russe in Ucraina, fu una scelta personale, “presa in una notte di veglia col pensiero all’Ucraina”. Un modo per “segnalare al governo che può porre fine alla guerra in un attimo. Perché non ci sia un’altra sola morte in Ucraina. Non una”.
Sul perché non citi mai la Russia e Putin quando parla del conflitto in corso, Francesco risponde deciso: “Un papa non nomina mai un capo di stato, tanto meno un paese, che è superiore al suo capo di stato”.
Su Kirill, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, capo della Chiesa ortodossa russa, dice che i rapporti sono “molto buoni” ma che l’incontro programmato per giugno a Gerusalemme non si farà perché “la nostra diplomazia ha capito che un colloquio a due in questo momento potrebbe dare adito a molti equivoci”. Sarebbe stato il secondo appuntamento tra Francesco e Kirill, dopo la prima volta nel 2016 all’aeroporto dell’Avana, lontano da Roma e lontano da Mosca. Il Patriarca russo si trovava a Cuba e Francesco in visita in Messico fece uno scalo apposta per conoscerlo.
Fu un evento storico tra due Chiese non sempre in sintonia. Un evento unico. Che non era riuscito né a Giovanni XXIII, né a Benedetto XVI.
Nell’intervista Bergoglio si sofferma su un argomento a lui caro, l’informazione. “Una nobile professione, una missione” che può cadere in quattro tentazioni: “disinformazione, calunnia, diffamazione e coprofilia. La più grave non è la coprofilia, ma la disinformazione, che è il contrario, l’altro volto dell’informazione”. Ancora più triste se si fa per soldi. La stessa denuncia con la stessa elencazione dei quattro peccati gravi Papa Francesco l’aveva espressa il 7 aprile scorso al suo amico giornalista argentino Gustavo Sylvestre in una lettera autografa finita sul web, nonostante la raccomandazione a Sylvestre di non gettare “querosene al fuego”.
Chissà perché queste recentissime riflessioni del Papa sull’informazione non hanno avuto eco sulla stampa italiana. Come fossero rimosse. Perfino dai giornali cattolici. Forse sarà stata la coprofilia, cioè la passione, anche feticistica, per gli escrementi, a creare qualche imbarazzo.
Ma l’impressione è che il Papa abbia voluto ricordare ancora una volta la lezione di Baltasar Gracián, l’umanesimo teologico della Compagnia del Gesù, l’ingegno sottile dei “conceptos”, frammenti di saggezza concentrata e aforismi raffinati, espressi in un saggio del 1647 “Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza”. Un libro che riflette la passione per il dettaglio del barocco e le inquietudini del crepuscolo del Siglo de Oro ma venne adottato alla corte del Re Sole, Luigi XIV di Francia. Con tale successo da diventare fondamento dell’educazione del gentiluomo, fino ad essere tradotto molti anni dopo da Schopenhauer e apprezzato da Nietzsche. Un viatico di tattiche “di questo mondo” per affrontare pericoli, insidie e degrado e riportarli al vivere civile. Con un’avvertenza: “Las cosas no pasan por lo que son, sino por lo que parecen: son raros los que miran por dentro y muchos los que se pagan de lo aparente”.
Il confine tra verità e menzogna è sempre molto labile. In questo mondo quasi tutti si fermano alle apparenze.