Cementare un fronte, il proprio, e spappolarne mille: dai Cinque Stelle alla destra di governo, per citarne alcuni. Sarà anche vero che per Matteo Salvini la Sicilia è avara di soddisfazioni – come dimostrano le ultime Amministrative e l’inchiesta a suo carico aperta dalla procura di Agrigento e trasmessa al Tribunale dei Ministri di Palermo – ma la strategia del leader del Carroccio possiede un “non so che” di geniale. Il primo risultato pubblico, incontrovertibile, è fortificare un consenso che, dalla data del 4 marzo, è cresciuto a dismisura. Il 17% ottenuto alle Politiche è una base di partenza che risulta più che ampliata, quasi raddoppiata. Tanto che un noto avvocato di Palermo, appresa dell’inchiesta dal procuratore di Agrigento, su Facebook ha allargato le braccia: “L’atto, doveroso e coraggioso, di Luigi Patronaggio rischia di far aumentare la popolarità di Salvini. Ma siamo arrivati ad un punto di non ritorno”.
Il leader della Lega ha fatto presa sul popolo più di quanto non vi sia riuscito il Grillo della prima ora. Il sentiero era già tracciato. E ha costretto i Cinque Stelle a inseguirlo, talvolta costringendoli a rischiose diatribe interne. Come sul caso Diciotti. Il Movimento è stato quello che ha più risentito delle scosse d’assestamento. Fra l’ala filo-governativa, sostenitrice del “gialloverde sempre e comunque”, e l’ala ortodossa, che incarna – ad esempio – il pensiero del presidente della Camera Roberto Fico, sono mille le questioni aperte, dibattute, rinviate per non farsi male.
La transizione da partito di lotta a partito di governo, da partito che non cede a compromessi a partito che grazia gli “indagati”, si sta rivelando lunga e tortuosa. La Sicilia non è un osservatore neutrale. Ma la sede naturale di una crepa che si allarga giorno dopo giorno. Da qui, da Palermo sono partite le prime micce indirizzate al governo. Il deputato regionale Giampiero Trizzino, uno che si occupa di Ambiente e Rifiuti, ha alzato i toni per sottolineare come la gestione del caso Diciotti sia stata “un’azione che non posso condividere in alcun modo”. Ugo Forello, il consigliere più battagliero di palazzo delle Aquile, ha spiegato a Salvini che “è passato il tempo del princeps legibus solutus. Le scelte politiche, la discrezionalità politica e dell’azione di governo, trova un limite invalicabile nel rispetto della Costituzione, dei trattati internazionali e della legge”. Anche il deputato nazionale Aldo Penna sottolineava come “i 150 migranti trattenuti sulla nave” avevano “tutto il diritto di poter accedere alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato politico”.
Cancelleri, che per l’amico Di Maio si farebbe in quattro, e del governo gialloverde è un accanito sostenitore, ha risparmiato la Lega. Minimizzato il dibattito interno al Movimento (“Ho letto ciò che hanno detto detto Forello e Trizzino, ognuno è libero di esprimere le sue opinioni“) e utilizzato il vecchio (e caro) tema degli inciuci per sviare la questione: “Vedere quelli del PD condividere il pensiero di Gianfranco Micciché sulla nave Diciotti dice tutto su come questa regione sia governata dalla stessa “pasta cchi sardi” di sempre. A leggere quelle parole sembra che Forza Italia abbia superato il PD a sinistra” ha postato Cancelleri. Caciara politica. Che ha consentito persino ai partigiani Dem di entrare a gamba tesa sul vice-presidente dell’Assemblea regionale: “Cancelleri non è degno di sedere al Parlamento siciliano – ha sentenziato Antonio Rubino – Capisco il suo imbarazzo: che non potendo attaccare Salvini prova a sporcare gli avversari”.
Persino i partigiani preferiscono Micciché a Cancelleri. Come cambia il mondo. Quello “stronzo” pronunciato a gran voce (per iscritto in realtà) dal presidente dell’Ars nei confronti del ministro dell’Interno, ha ricevuto applausi dai banchi immaginari del Pd, da Faraone a Cracolici. Un po’ meno felice Berlusconi (“Odia la parola “stronzo” a prescindere da chi la pronunci” ha spiegato Micciché). E’ rimasto muto, invece, il governo siciliano. Musumeci, che con la Lega ha costruito un’alleanza platonica dopo aver fatto tappa a Pontida, si è limitato a dire che “noi governatori siamo impotenti” e che “il trattato di Dublino è il paradigma di una follia normativa che non può essere tollerata”. L’assessore Razza, intervenuto per rassicurare sulla salute dei migranti a bordo, ha approvato, in modo sommesso, la linea del Viminale: “Non tocca a me valutare l’enorme insensibilità con cui l’Europa ritiene di dover affrontare la tragedia delle migrazioni, caricandola sul nostro Stato. Possiamo solo sperare che qualcuno, finalmente, si svegli a Bruxelles”. Resta chiara, e persino comprensibile, la distanza tra chi parla d’umanità e chi parla di politica. Di chi ha capito che è meglio non sconfinare.
E la sinistra come ne esce? Per prima cosa, stabilendo il record di visitatori sul red carpet del porto di Catania: da Martina a Fassina c’era l’establishment al gran completo, con Pd e Sel a contendersi la palma del più “compassionevole”. Le indagini a bordo di Faraone e Miceli hanno molto di meritorio, l’arrivo della Boschi suona quasi incomprensibile (ah no, aspettate un attimo, era candidata nei collegi siciliani). La presenza di Boldrini – che la nipote del Duce, Alessandra Mussolini, avrebbe voluto spedire in Libia sulla stessa nave dei 177 disperati – ha provocato l’ulcera a Salvini oltre che a Di Maio (“Ai funerali di Genova non l’ho vista”). Un ritrovo di vecchi compagni che si guardano in cagnesco. Accusati di imbastire passerelle. Che vorrebbero rifarsi una verginità e riappropriarsi dei grandi temi che furono: fratellanza, solidarietà, amore per il prossimo.
Tra questi c’era Claudio Fava, il primo a recarsi sulla nave dopo il blitz del procuratore Patronaggio. Il primo a constatare lo stato di salute dei migranti, il primo a suggerire a Salvini di salire a bordo per “guardarli negli occhi come ho fatto io”. Il primo a “parlare con il comandante della nave e con l’equipaggio, ascoltare le storie di strazio, violenza e schiavitù”. Il primo e l’unico esponente dell’antimafia (è presidente di Commissione all’Ars) ad aver manifestato contro “un bellimbusto convinto che un punto in più sullo spread della sua Lega valga l’aggettivo “palestrati” per centocinquanta eritrei sopravvissuti a un naufragio e all’orrore dei lager libici”. Il primo e, per questo, il più credibile.
Ma l’ultima spaccatura in ordine di tempo, provocata dall’intemperanza di Salvini su Diciotti, è quella fra l’Associazione Nazionale Magistrati e il guardasigilli Alfonso Bonafede, che (forse) a ragion veduta non ha mai messo il becco sulla questione: “Il ministro della Giustizia – ha detto il presidente di Anm Francesco Minisci, in un’intervista a Repubblica – difenda le prerogative costituzionali della magistratura dagli attacchi di Salvini perché non è il ministro dell’Interno che verifica i reati. Abbiamo la massima fiducia nei colleghi di Agrigento, dobbiamo lasciarli lavorare senza indebite e inammissibili interferenze. Chi ricopre incarichi istituzionali, in particolare il ministro della Giustizia, deve difendere le prerogative costituzionali della magistratura” ha tuonato il “leader” dei magistrati italiani. Bonafede, intervenuto in questi giorni con un timido post per rimarcare la compattezza del governo sui migranti, se ne sta muto. In privato, però, avrebbe ribadito la linea espressa qualche sera fa su Facebook ossia che “ventilare un movente politico dietro l’azione dei magistrati appartiene a una stagione politica ormai tramontata”. Il ministro non fa il sindacalista, ma – raccontano – manterrà l’atteggiamento della scorsa legislatura, quando non ha mai attaccato le toghe. E’ questo l’ennesimo punto di rottura, stavolta fra Bonafede e Salvini: ok al diritto di critica, ma parlare di magistratura “politicizzata” non è da 5 Stelle.