Salvo Pogliese non si dimette. E’ questo il risultato del viaggio ecumenico di Ignazio La Russa e Francesco Lollobrigida in Sicilia. Due tappe fra Catania e Palermo, con in mezzo la sciagurata prestazione della Nazionale di calcio, per insistere con la candidatura di Carolina Varchi e Nello Musumeci; ma anche per blindare il sindaco “sospeso”, che non riesce più a tirarsi fuori dalle sabbie mobili della giustizia. E che ha finito per condannare il capoluogo etneo a una situazione di precarietà mai vista prima, sotto il profilo istituzionale e della rappresentanza. Il sindaco-non-sindaco aspetta. Almeno fino al 10 aprile, quando il Tribunale Civile di Catania, che ha appena rigettato la richiesta di sospensiva della sospensiva presentata da Pogliese, si esprimerà – nel merito – sul provvedimento del Prefetto che lo ha ‘sollevato’ dall’incarico fino al marzo 2023, per effetto della Legge Severino. La Meloni è ovviamente d’accordo con le decisioni del primo cittadino, che, per inciso, aveva scelto la via della resistenza ancor prima che glielo suggerissero gli sherpa romani.
Ma attorno alle vicende di Pogliese vanno considerati almeno un paio di aspetti (ulteriori): il primo è che l’attualità – sospensione o non sospensione – fra qualche mese verrà superata da un altro girone infernale, ovverosia l’inizio del processo d’appello per peculato, dopo la condanna a 4 anni e 3 mesi subita in primo grado per la vicenda delle spese pazze, circostanza che potrebbe (questa, sì) portare alle dimissioni dall’incarico; il secondo, invece, riguarda più da vicino la credibilità del partito dell’intransigenza. Quando il capo della segreteria dell’assessore Messina denunciò il tentativo di corruzione da 50 mila euro, che, qualche settimana fa, ha portato all’arresto di una musicista palermitana, la Meloni si presentò sui social per ribadire che “Fratelli d’Italia ha sempre fatto della legalità la sua bandiera: se ne facciano tutti una ragione”. Il partito veniva fuori dall’inchiesta Fan Page, che aveva portato all’autosospensione dell’eurodeputato Carlo Fidanza per gli intrallazzi con le lobby nere. Quello di Messina fu una generosa coincidenza per uscire dall’angolo.
In Sicilia, però, a proposito di questione morale, la Meloni avrebbe di che riflettere. E non tanto per la condanna del consigliere palermitano Mimmo Russo (a 1 anno e 4 mesi, pena sospesa, per aver intascato 136 mila euro di rimborsi non dovuti da parte del Comune). Si tratta, con tutto il rispetto, di un ‘pesce piccolo’. Il nodo non è – almeno fino al terzo grado di giudizio – la condanna, ma la compatibilità di certi comportamenti con la presenza all’interno delle istituzioni. E Fratelli d’Italia fatica a barcamenarsi nelle tante situazioni borderline che l’attualità propone: a partire dalla permanenza di Pogliese a palazzo degli Elefanti, o quella di Ruggero Razza a piazza Ottavio Ziino, sede dell’assessorato alla Salute, nonostante l’inchiesta sui dati falsi e il “disegno criminoso” ipotizzato dalla procura di Palermo in chiusura di indagini preliminari.
Musumeci, che nella scorsa legislatura è stato presidente della commissione Antimafia, e si ritiene un governatore con la schiena dritta oltre che una persona perbene, ha lasciato correre un po’ troppo. Su Razza, dopo aver accolto a denti stretti le dimissioni presentate il 30 marzo 2021, un minuto dopo le rivelazioni degli inquirenti, ha deciso di (ri)piazzarlo in giunta a distanza di un paio di mesi. Suonò come una botta di smacco nei confronti della magistratura, invitata a farsi da parte: “Chiedo ai magistrati che si stanno occupando della vicenda, più sobrietà, meno vetrine, meno interviste – disse Musumeci nel corso di un dibattito d’aula -. Un pm nella fase iniziale dell’indagine deve avvertire la necessità di meno sovrapposizione mediatiche e non deve esprime valutazioni di carattere morale o etico su persone che ricoprono cariche pubbliche”, disse riferendosi al procuratore aggiunto di Trapani, Maurizio Agnello. Frasi condivisibili, se facessero il paio con una gestione ‘morale’ della cosa pubblica altrettanto pignola. E invece no.
Musumeci e Armao, fino al 2018, intrattennero rapporti con Antonello Montante, l’ex leader di Sicindustria condannato a 14 anni per corruzione: “Continuavano a chiedere indicazioni su come muoversi, su cosa portare avanti nella loro azione politica”. In uno dei verbali Montante argomenta: “Mi ritrovo la Regione Sicilia parte civile in questo processo quando fino al 2018 il presidente Musumeci, ci chiamiamo Nelli e Antonello, veniva a Confindustria, e aspettava anche ore, perché gli impegni erano tanti, per chiedermi esattamente che cosa doveva fare, quali erano le attività di sviluppo che doveva portare avanti. Voleva giocare a bocce, ci incontravamo a bocce, facevamo i pranzi in Confindustria, facevamo i pranzi a Palermo, ci vedevamo dappertutto, parlo di cose istituzionali, non parlo naturalmente di cose private”.
Musumeci, invece, aveva raccontato a Fava, in commissione Antimafia, di tre soli incontri con l’imprenditore di Serradifalco: “Se Montante dice il vero – erano state le conclusioni di Fava – Musumeci non può restare un minuto di più alla guida della Regione: al di là dell’inopportunità di scegliersi, nei suoi primi mesi di governo, un indagato per mafia come consigliere economico, resterebbe il fatto gravissimo di aver ripetutamente e consapevolmente mentito ad una commissione del parlamento siciliano”. “Quello che dovevo dichiarare sui rarissimi incontri avuti con il dottor Montante, quando rivestiva importanti incarichi istituzionali, l’ho già fatto all’autorità giudiziaria – fu la replica di Musumeci -. Fava è già in campagna elettorale e dovrebbe dimettersi dalla presidenza della commissione Antimafia”. A proposito dell’assessore al Bilancio, invece, Montante diceva: “Il vice presidente Armao, mio amico, una persona che stimo, di grandissimo livello, fino al 2018, prima dell’arresto, veniva a cercarmi decine di volte e a dirmi esattamente quali erano le attività che dovevano portare avanti”.
Al di là delle frequentazioni con Montante, resta la posizione passiva della Regione siciliana su alcuni scandali: come quello del censimento fantasma realizzato da Ezio Bigotti, e fruttato un centinaio di milioni, per nome e per conto di Sicilia Patrimonio Immobiliare (tuttora in liquidazione). Ma soprattutto sulla vicenda dell’Ast, l’azienda siciliana dei Trasporti, che ha portato all’iscrizione di 16 persone nel registro degli indagati, all’arresto dell’ex direttore generale Ugo Andrea Fiduccia, e alle dimissioni del suo sostituto, Giovanni Amico, scelto dal Cda dell’azienda (nominato dalla Regione) nonostante anch’egli fosse coinvolto. Però Musumeci disse di aver incontrato Fiducia (“Un mascalzone”) solo una volta e di non aver trovato terreno fertile quando chiese al presidente dell’epoca, Gaetano Tafuri, di sostituirlo. A Tafuri chiese pure di organizzare un bus navetta – rigorosamente gratuito – per garantire i collegamenti da Scordia alla Fiera mediterranea del cavallo di Ambelia. Una fattispecie che ha portato la Procura di Palermo a tirare delle conclusioni: “È evidente come la dirigenza dell’Ast sia a disposizione del governo regionale, in primis del governatore Musumeci, nell’ambito di alcune iniziative che, da un lato, accrescono il consenso politico di quest’ultimo ma, dall’altro, aggravano la già precaria situazione economico finanziaria dell’Ast”.
Della vigilanza gestionale dell’Ast avrebbe dovuto occuparsi l’assessore all’Economia Gaetano Armao, che però non l’ha mai fatto abbastanza. Non è intervenuto per smontare il Consiglio d’Amministrazione, colpevole di mantenere in carica Fiduccia (“Prima di intervenire con provvedimenti di revoca che introducono fibrillazioni, si è cercato il più possibile di garantire il mantenimento dei servizi”); non ha impedito il ricorso smodato alle agenzie interinali per sopperire al deficit assunzionale, un giro che ha dato vita a una sequela impronunciabile di pizzini, favori e clientele.
Ma se vogliamo soffermarci sulla morale, senza sconfinare nel campo della giustizia, basta l’esempio dell’Oasi di Troina. Un ente di Sacra Romana Chiesa – quindi, privato – convertito, secondo le ricostruzioni del quotidiano ‘La Sicilia’, a succursale di partito: non solo con la nomina del direttore generale – un consigliere comunale di Diventerà Bellissima a Palermo – poi revocato, ma di tutta una serie di figure professionali legate all’universo musumeciano, compreso un dirigente di struttura col curriculum tarocco. Sulla vicenda dell’Oasi, ovviamente, nessuno ha proferito parola. E nemmeno sull’inchiesta legata ai clan di Barcellona Pozzo di Gotto, alcuni dei quali si sarebbero spesi per procurare voti a un paio di consiglieri della lista di Diventerà Bellissima. “C’è il Musumeci che tuona contro ogni forma di corruzione politica, clientelare e paramafiosa; e il suo avatar, che di fronte all’evidenza di alcune indagini giudiziarie che riguardano personale e dirigenti del suo partito, elegantemente tace”, fu la disamina di Claudio Fava.
Difficilmente la Meloni sarà al corrente della gestione del ‘cerchio magico’. Con la politica, d’altronde, ci sporca le mani senza volerlo. E talvolta anche la bocca. Come accaduto a più riprese all’assessore Manlio Messina, il cavaliere del Suca, che dopo aver inondato i social di tesi bizzarre su vaccini ai minori e Green pass, si è concesso la licenza di apostrofare in malo modo chi la pensava diversamente. Per lui è un habitué. Per Fratelli d’Italia lo è diventato. E al solo pensiero di ritrovarselo nel direttorio guidato da Ignazio La Russa, qualcuno già rabbrividisce.