A dieci giorni dalla scadenza fissata dal governatore Nello Musumeci, che aveva promesso di approntare i documenti contabili entro il 31 marzo e trasmetterli al parlamento, e a poche settimane dalla fine dell’esercizio provvisorio, autorizzato lo scorso gennaio dall’Ars per la durata di quattro mesi (fino al 30 aprile), non si ha ancora traccia della Legge di Bilancio e di Stabilità 2022. La sessione finanziaria rischia di essere del tutto affumata dalla guerra interna al centrodestra. E da un ricambio nelle commissioni che, comunque, dovrebbe esaurire il proprio iter entro la metà della prossima settimana, con l’elezione dei nuovi presidenti.
Per il quinto anno consecutivo il governo della Regione non è riuscito a presentare i documenti contabili entro la scadenza del 31 dicembre, e ha dovuto ricorrere all’esercizio provvisorio. A far fede da quella data, quindi, l’Ente ha speso in dodicesimi, sulla base degli appostamenti previsti dall’ultimo Bilancio approvato (quello del 2021). L’assessore all’Economia, per giustificare il ritardo, ha tirato in ballo anche stavolta l’accordo di finanza pubblica con Roma, siglato al Ministero dell’Economia a metà dicembre e diventato operativo con l’approvazione della Legge di Bilancio dello Stato. Un’intesa che dovrebbe garantire alla Sicilia un tesoretto da mezzo miliardo a partire da subito. L’intesa, infatti, prevede l’abbattimento del concorso alla finanza pubblica di 200 milioni, riducendo così il contributo a 800 milioni euro all’anno a decorrere dal 2022.
Sempre da quest’anno viene altresì attribuito alla Regione l’importo di 100 milioni a titolo di acconto per la definizione delle norme di attuazione in materia finanziaria e per la compensazione degli svantaggi strutturali derivanti dalla condizione di insularità (il disegno di legge costituzionale è approdato qualche giorno fa alla Camera dei Deputati). Si è stabilito, inoltre, di rinviare 211 milioni di euro da ripianare nell’esercizio 2022 (pari a circa la metà dell’importo relativo alle quote ordinarie di copertura del disavanzo accertato con l’approvazione del rendiconto 2018) al secondo esercizio successivo a quello di conclusione del ripiano originariamente previsto, che prevede una spalmatura in dieci anni.
Cinquecento milioni, quindi, saranno da subito nella disponibilità della Regione. Eppure, la macchina infernale della Finanziaria, che vedrà impegnata in primis la giunta, a ruota le commissioni di merito e la commissione Bilancio, e infine Sala d’Ercole, non è ancora partita. Ed è anche facile capire il perché: mettere d’accordo una maggioranza così raccogliticcia, nell’ultima manovra che precede la competizione elettorale, è un’impresa titanica. Il bottino, utile a far ricadere sui territori una serie di interventi a pioggia per alimentare i bacini elettorali di singoli deputati e assessori, è ghiotto. E nessuno vorrà farsi scappare l’occasione. Peccato che il centrodestra sia più frastagliato che mai, e che attorno alla ricandidatura di Musumeci – della quale si parla da mesi – sia andato in scena un fracasso senza precedenti.
Persino il vertice della commissione Bilancio, che dall’inizio della legislatura è gestito da Riccardo Savona (FI), è tornato in bilico dopo l’azzeramento proposto da Micciché. Un atto che andava compiuto a metà legislatura, ma che a questo punto del cammino rischia di innescare un cortocircuito. A capo della Bilancio il presidente dell’Ars vorrebbe mandare Bernadette Grasso, ex assessore alle Autonomie Locali, rimpiazzata poco più di un anno fa da Marco Zambuto, nel frattempo trasformatosi in un ‘falco’ al servizio del presidente della Regione. Ed è proprio dalla spaccatura di Forza Italia che Miccichè deve aver preso spunto per ripristinare un po’ di gerarchie all’interno del parlamento siciliano. Dove, oggi, esiste una maggioranza trasversale anti-Musumeci, che vede la partecipazione di un pezzo di Forza Italia, della Lega, degli Autonomisti (che hanno presentato una mozione di censura nei confronti dell’assessore Messina), forse dell’Udc, oltre che delle opposizioni della ‘prima ora’: Pd e Cinque Stelle. Questi ultimi due partiti hanno tutto l’interesse a rompere il fronte, tanto da risultare i promotori di questo rimpasto nelle commissioni.
Sopravvivere senza una maggioranza ‘reale’, giusto per pochi mesi, è possibile. In nome di alchimie e compromessi vari. Lo è un po’ meno cercare di conciliare gli interventi utili alla Sicilia e quelli necessari alla propria salvaguardia politica. La manovra si presta, sfortunatamente, a questo equivoco. In una terra devastata dalla pandemia (alcune misure della Finanziaria di guerra del 2020 sono rimaste inattuate) e ulteriormente impoverita dagli effetti della crisi ucraina (come l’aumento del costo del carburante e delle materie prime), giocare sulla pelle dei cittadini non è il miglior viatico per presentarsi alle urne. E forse, oltre a stoppare le nomine fino al termine della legislatura, anche commissariare il Bilancio non sarebbe un’idea malsana. Fermo restando che sui conti della Regione pesano ancora l’ultimo giudizio di parifica, e le storture evidenziate dalla Procura regionale della Corte dei Conti, nonché dalle Sezioni riunite in composizione speciale, a Roma. Un’altra parifica, relativa (stavolta) al rendiconto 2020, potrebbe consegnare un quadro della realtà molto distante dall’entusiasmo ovattato con cui la Regione dice di aver recuperato il gap economico e di credibilità rispetto alle “allegre gestioni degli ultimi trent’anni” (parola di Musumeci).
Le dichiarazioni di Armao vanno oltre le prospettive più rosee. Infatti, “quanto convenuto tra la Regione ed il Governo centrale prevede un primo termine (maggio 2022) per la definizione di intese finanziarie con riguardo ad importanti voci di bilancio (IVA, F24, Split payment, bollo, ma soprattutto con riferimento alla sin qui irrisolta partita delle accise), di questioni aperte da anni, ma soprattutto indicano un termine invalicabile (“entro e non oltre il 30 giugno 2022, con effetti a partire dall’anno 2023”) per la complessiva definizione della nuova normativa di attuazione dello Statuto in materia finanziaria. Tale adempimento – si legge in una nota di palazzo d’Orleans – appare imprescindibile per superare un assetto, risalente al 1965, che, con le compartecipazioni tributarie concordate nella precedente legislatura – come precisato dalla Corte dei conti – non garantisce più alla Regione la copertura delle spese per le funzioni statutariamente attribuite, determinando una sorta di “insostenibilità dell’autonomia”, incompatibile i principi della Costituzione”.
La Regione non riuscirebbe più a sostenersi, ma grazie ai miracoli della diplomazia sarebbe riuscita a rimettersi in pista. Ora di miracolo ne servirebbe un altro: presentare i disegni di legge di Bilancio e di Stabilità nei tempi concordati da Musumeci, evitare che si trasformino in un giochino da campagna elettorale, scrivere le norme senza furberie (evitando facili impugnative da Roma o rimproveri tardivi della Corte dei Conti) e infine procedere con l’approvazione senza innescare il motore delle solite clientele. Bisognerebbe fare le cose normali, per una volta.