“La verità è che siamo rimasti due picciotti di vita e malavita”. Ci dicevamo così ogni volta che, tra un articolo e una vignetta, ci restavano cinque minuti per chiacchierare come due vecchi amici e per ricordare, non senza un pizzico di buttanissima ironia, gli anni dell’eroico e irripetibile giornale L’Ora. Eravamo due ragazzi di vent’anni e abbiamo cominciato insieme lì, in quello stanzone di piazzale Ungheria, rovente d’estate e gelido d’inverno, dove si scriveva la cronaca nera di Palermo. Erano gli anni delle scorribande mafiose e della guerra tra le cosche, della strage di viale Lazio, e dei morti ammazzati per i quali era già difficile aggiornare di ora in ora la contabilità. Erano gli anni del potentissimo Salvo Lima e dello spregiudicato Vito Ciancimino, dei boss che spadroneggiavano al Comune e anche nei palazzi della Regione. Ma era anche il tempo in cui si intravedeva una Sicilia diversa, senza lupare e senza coppole storte, perché ogni giorno avevamo una manifestazione studentesca da seguire, c’era l’occupazione delle scuole e dell’università, e c’erano i ragazzi con le chitarre e i capelli lunghi, come i Beatles e i Rolling Stones, o con il basco inclinato come Che Guevara, e si gridavano slogan contro la guerra nel Vietnam: yankiee go home.
Erano gli anni della rivoluzione che immaginavamo dietro l’angolo. Era il 1968. E Vincino era lì in prima fila, pronto a tracciare con la matita la crudeltà di un agguato mafioso o l’incantata evanescenza di un teatrino messo in piedi, con straordinario zelo, da un comitato studentesco al dopolavoro dei Cantieri Navali per sottolineare, manco a dirlo, l’abbraccio con la classe operaia. Mangiavamo pane e contestazione. Anche a pranzo, al ristorante “Grattacielo” di via Salvatore Meccio, dove ci portava Vittorio Nisticò, grande direttore e maestro di tutti noi, per insegnarci pure in quell’ora di pausa, i codici di un mestiere non facile. Soprattutto per noi de L’Ora, che sfidavamo la mafia con inchieste così puntuali che qualche anno prima Luciano Liggio, boss dei corleonesi, aveva pensato bene di intimidirci con una carica di tritolo sistemata a ridosso della tipografia. E Vincino stava lì con noi, al tavolo del “Grattacielo”, a raccontare della sua militanza e del suo impegno “in primis contro mio padre”.
Diceva proprio così. Perché era figlio dell’austero ingegnere Gallo che, da direttore generale del Cantiere Navale, era ovviamente tra i bersagli prediletti di quelle tute blu che tanto affascinavano i ragazzi dell’agiata borghesia palermitana. Una borghesia che i comunisti de L’Ora, con Nisticò in testa, non volevano mai aggredire frontalmente ma che Vincino metteva puntualmente in crisi con lo sberleffo corrosivo di una sua vignetta. La più celebre fu quella dedicata al pretore Vincenzo Salmeri il quale più che un magistrato era da considerare un missionario della Buoncostume, una stonatura vivente tra la libertà invocata dai ragazzi asserragliati nelle scuole della protesta e il bigottismo di norme scritte in epoche oscure e sopravvissute a dispetto del correre dei tempi. Come l’oltraggio al “comune senso del pudore”, previsto dall’articolo 527 del codice penale.
Al pretore che già aveva perseguito, proprio così, due turiste sorprese a Piazza Pretoria in attillatissimi hot pants mentre giravano attorno alla fontana delle Vergogne, quella con le statue nude, venne in testa un giorno di mettere sotto sequestro i manifesti della Jesus che per l’appunto mostravano un rotondissimo culo di donna, bene avvolto dagli hot pants, e una scritta che il dottor Salmeri riteneva a dir poco blasfema: “Non avrai altro jeans al di fuori di me”.
Ne nacque una polemica rovente che coinvolse rivoluzionari e conservatori, comunisti e democristiani, cattolici e miscredenti, contestatori e benpensanti. E nella quale Vincino immancabilmente si tuffò con tutta la sua beffarda caparbietà. Con la levità della sua matita abbozzò in quattro e quattr’otto il disegno e mise sotto il naso di Nisticò la vignetta che riproponeva gli stessi hot pants della Jesus ma con una scritta leggermente diversa: “Non avrai altro pretore al di fuori di me”. Un colpo di genio. Una vampata di ironia. Un esempio di stile. Una ventata di libertà.
Ne parlavamo sempre di quella vignetta. Dopo anni e anni. E sempre con lo stesso, sacrilego compiacimento. Come due compari stagionati e irredimibili. Come due picciotti di vita e malavita.